Argomenti controcorrente su una nomina irritualmente partorita a 3 giorni dalla scadenza del mandato del presidente Paolo Baratta. Che si rivelerà vincente
La notizia della designazione della direttrice della Biennale Arti Visive per l’edizione del 2021, giunta il 10 gennaio, ha dato la stura – come abbiamo visto – ad una ridda di commenti non di rado apertamente polemici. Prevalentemente verso la stessa designata, Cecilia Alemani.
Con un articolo che non ha mancato di far rumore nell’ambiente abbiamo già rimarcato come queste prese di posizione abbiano fatto emergere i limiti di certi osservatori, da noi inquadrati nel “generone italiano della critica”. Pronto ad addebitare alla curatrice il “vulnus” di essere moglie di Massimiliano Gioni, e ad individuare in questo legame parentale la prevalente se non esclusiva ragione della sua scelta.
Trascurando i meriti – o anche i limiti, perché no – oggettivi del personaggio. E anticipando in sostanza un giudizio che solo con la conoscenza delle sue scelte, meglio ancora con la visione della mostra, potrà essere formulato con credibilità.
Ma altrettanti commenti, anzi spesso in combinazione con questi, erano e sono dedicati ad un altro aspetto di questa nomina. Che in effetti ha colpito un po’ tutti per una repentinità tante volte, ad essere onesti, richiesta alla Biennale di Venezia, piuttosto che addebitata. Ma il problema, sollevato da critici ben più seri di quelli appassionati al gossip familiare, non è tanto di tempi, quanto di opportunità e volendo di “garbo” istituzionale.
Già, perché la contestata nomina – contestuale peraltro a quella di Ivan Fedele a Direttore del Settore Musica, e ad altri provvedimenti inerenti il settore Cinema – è giunta come un fulmine a ciel sereno quando il CDA della Biennale, con il presidente Paolo Baratta, era ampiamente in scadenza, e sarebbe decaduto dopo solo 3 giorni, il 13 gennaio.
Atteggiamento prevaricatore verso i futuri amministratori, ha tuonato qualcuno. Delirio di onnipotenza nel voler lasciare il proprio segno fino all’ultimo minuto, anche a costo di innescare disguidi e disfunzionalità, ha sbottato qualcun altro. In effetti, astrattamente, una certa irritualità non può sfuggire, in nomine tanto impattanti nell’attività della Biennale, effettuate con la valigia già in mano. Ma appunto, astrattamente: la questione – a nostro parere – cambia prendendo in considerazione il contesto e le persone coinvolte.
Se il bicchiere mezzo vuoto vede, come abbiamo accennato, una decisa forzatura nell’atteggiamento di Baratta, quello mezzo pieno vi potrebbe individuare una forma di responsabilità del presidente uscente – anzi, ormai uscito -. Se la successione alla presidenza e nel CDA seguirà le liturgie e i tempi spesso biblici ai quali ancora oggi ci dobbiamo spesso rassegnare in Italia, il rischio di passare mesi senza direttori di settore era abbastanza concreto. E ad affrontare tali scelte sarebbero stati amministratori probabilmente nuovi all’ambiente, con potenziali ulteriori lungaggini in vista.
E poi: vista la qualità della classe politica – detto a 360 gradi – che ci ritroviamo oggi nel Paese, qualcuno potrebbe mai assicurare che attendendo i tempi canonici ci saremmo ritrovati un presidente capace di opzioni adeguate?
Esatto, perché alla fine il discorso non può che cadere su di lui, su Paolo Baratta, e sulla sua storia alla Biennale di Venezia. È innegabile che parliamo di un personaggio con una lunga storia di rapporti con la politica. Per cui è altrettanto inevitabile che i giudizi su di lui e sul suo operato possano essere disparati se non contrastanti. Però ci sono i fatti che invece non possono essere oggetto di lettura parziale. Cioè c’è una Biennale – per limitarci al settore Arti Visive – che nei 20 ani di guida Baratta ha conservato e anzi rafforzato il proprio primato di evento più importante a livello internazionale.
E questo in un momento storico che ha visto e vede una generalizzata crisi socio-economica globale. Ma che ha visto e vede anche il prepotente emergere di nuove realtà socio-politiche e culturali. Potenziali agguerrite concorrenti in una leadership che invece resta saldamente cosa veneziana. E questo in parte, in larga parte, grazie alle scelte dell’”irrituale” ex presidente. Perché questa ultima, prevaricatrice quanto si voglia, dovrebbe essere sbagliata?
Massimo Mattioli