Studio visit: Dario Maglionico
Quando posso, quando mi avanza del tempo, faccio le cose che amo di più. Nella società contemporanea funziona così (ma forse è sempre stato). E dunque, se non passo ore a suonare nella mia sala prove, vado a fare gli studio visit, che rappresentano la parte più pura e coerente del lavoro di un giornalista che di arte si occupa.
Normalmente funziona che le segnalazioni arrivano da amici, curatori, collezionisti, gallerie. Alle volte vado per conto mio, e per puro caso. Come in questo caso.
Ho incontrato il lavoro di Dario Maglionico su Instagram, e mi ha stregato subito. Nonostante avessimo una fila di conoscenze comuni non ci siamo mai incontrati prima. Così gli ho scritto e mi sono addentrato nel ventre di quella porzione finale di via Padova, a Milano, che non c’entra già più nulla con la tanto chiacchierata NoLo. Posteggio nel distretto multietnico, molto poco posh, che poco interessa a chi non ci vive in prima persona.
La giornata è la classica del febbraio lombardo, uggiosa e densa, con quella pioggerella che invece di accarezzarti fa invece sentire il suo peso sul viso, quando ti tocca. Le case sono “sgarruppate”, come direbbero i bambini di Paolo Villaggio in “Io speriamo che me la cavo”. Il citofono dello spazio condiviso è già una garanzia di qualità: “Florida”. Mi catapulta in un immaginario che però col lavoro di Maglionico poco c’entra (e difatti lui è lì solo da qualche mese).
In pochi passi si raggiunge un basement dove oltre a Dario alloggiano altri pittori: dallo sguardo distratto che ho dato mi sembra gente capace, ma ho preferito concentrarmi sulle sue tele che aveva fatto rientrare apposta per l’intervista dalla galleria di Antonio Colombo, con cui lavora.
La ricerca è eccellente, il tocco anche. Pur non avendo frequentato corsi o accademie, ha il dono del pennello. Le scene sono quasi tutte domestiche. Anzi, tutte. Ci sono ritratti i suoi amici o persone che l’hanno incuriosito. Lui durante l’intervista fuma qualche sigaretta rollata per vincere una solo superficiale timidezza. In realtà il cuore partenopeo si srotola dopo una manciata di parole, squarciando l’etichetta legnanese, paese d’adozione dove a vissuto prima di trasferirsi a Milano. Le ragazze ritratte si sdoppiano, scompaiono, riappaiono, sono sedute sul muro o in sospensione. Non mancano i grandi classici della sua generazione: i Mac, la palladiana o la graniglia delle case prese in affitto per pochi soldi, i mobili che si montano.
Se fossi uno che deve farvi capire da dove arriva questa roba vi direi che si parte da Dalì e Magritte per incrociare e salutare al volo Paul Delvaux. Ma anche il realismo magico di Donghi e pure Ubaldo Oppi. Una pittura certa, dove il discorso delle cromie è vitale e vibrante tra gli elementi di ciascuna tela.
Al momento Dario ha pochi quadri in studio perché ha spedito tutto in Vietnam per la sua prima personale asiatica. Una gallerista aveva visto il suo lavoro a casa di un’amica e, come me, se n’è subito innamorata.
Io credo che qui ci sia sostanza. Che detto a casa di uno che dipinge i sogni…