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Quale Bellezza dopo la “peste”. Morirà il concettuale con le sue speculazioni?

Di fronte alla morte quale arte può salvarci? Riprenderanno forza quegli artisti che sono stati esclusi dalla roboante festa del concettuale e delle sue speculazioni?

Aderendo al diktat concettuale che tutto può essere arte, abbiamo assistito negli ultimi anni al moltiplicarsi dell’arte del disimpegno e dell’ironia e della citazione fine a sé stessa, immaginando che l’arte sia lusus, cioè che abbia a che fare con il divertimento e il “divertĕre” dalle questioni esiziali della vita.

Sempre più spesso, i musei si sono riempiti di giostre e giochi e piste da skateboard e scivoli che ricordano i vecchi luna park coi calcinculo, quelli che dalle mie parti si chiamavano baracconi. Queste installazioni mi fanno tanta più tristezza quanto più vorrebbero essere divertenti. Poi, ci sono state le stravaganze: opere che vorrebbero stupire per la loro stranezza, o ributtanza, che perseguono l’orrendo, il mostruoso, l’insensato, meglio se tutto insieme.

Carsten Höller all’Hangar Bicocca (Milano) nel 2016

Infine abbiamo assistito al dilagare dell’arte sociale. Lo spiega bene, in un recente saggio, Carole Talon-Hugon: l’artista si trasforma in attivista, l’opera in documento, l’esperienza estetica in esperienza politica, la critica d’arte in supporto didattico, il curatore diventa un intermediario. Abbiamo assistito a una desertificazione dell’arte, cioè a un suo esaurirsi, proprio nel momento in cui le assegniamo compiti più alti, addirittura funzioni etiche. L’arte sociale non produce più opere, bensì contenuti che prescindono dalla forma in cui sono fissati, di fatto la funzione critica ha sostituito l’ideale di Bellezza.

Nella sostanza, abbiamo assistito al crescere di una sorta di super religione dell’arte a cui è permesso (nel nome della libertà assoluta di espressione) di essere inutile, insensata, dissacrante, profanatoria, oppure di spingersi oltre i limiti della decenza. Di fatto la società contemporanea, non chiede più all’artista l’espressione della bellezza, semmai gli affida una primazia etica, un sacerdotale mandato di sconfinamento, in sostanza il superomistico compito di mettere in discussione i valori costituiti e portare il confine dell’umano un poco più avanti in terre ancora inesplorate. Con quali risultati, e verso quali mete, non ci è dato sapere.

Tendere alla Bellezza del fatto bene

Con le avanguardie e l’arte concettuale gli artisti hanno dunque smesso di indagare l’oggetto del fare arte, che è un tendere alla Bellezza del fatto bene: non la bellezza consolatoria dei sentimentali, o il pittorialismo buono per i mediocri, semmai la bellezza dell’arte che emenda perfino il brutto attraverso la perfezione della forma. Il termine “perfezione” inteso nel suo etimo latino come una cosa portata a termine, aggiungo nel modo migliore. Ho sempre pensato che l’artista sia la persona capace di fare quella cosa che fa nel modo migliore, così bene che nessuno può sostituirlo. La perfezione produce bellezza, perfino quando l’artista indaga il brutto o rappresenta il dolore, la bellezza emenda il brutto e il dolore. Di fatto la bellezza impone ordine nel caos, è un valore che forma e tende ad aggregare mentre tutto si disgrega e finisce. In questo senso, l’arte un tempo era un’attività del tutto umana, un modo per difendersi dall’entropia, dalla decadenza, dalla morte.

E dunque in tempo di peste? Di fronte alla morte quale arte può salvarci?

L’arte del disimpegno estetico, cioè l’arte dell’impegno etico e civile appare oggi misera cosa e inutile, a vederla. Quale consolazione può darci? Ed è in défaillance il sistema che la sostiene. I musei più cool del mondo hanno cominciato a licenziare, proprio gli stessi musei che, con i danari degli agiati e locupletati board, sostenevano l’arte cazzuta, ora in lockdown deserti e vuoti mostrano le proprie contraddizioni. E allo stesso modo, le gallerie internazionali, dai fatturati milionari, licenziano i sottoproletari del sistema, curator, young curator, assistants director, uffici di comunicazione … e così via.

Le fiere internazionali, il cui mercato vale circa 16 miliardi di dollari, per ora sono chiuse. Chissà quando potrà ricominciare la transumanza dei collezionisti che giravano il mondo per le preview, un inner circle di super ricchi in grado di determinare il mercato dell’arte. Perché trattasi di mercato non perfetto, cioè di un oligopolio in cui l’1% delle transazioni quota oltre il 60% del valore, e dunque un numero piccolo di persone è in grado di determinare i prezzi e le mode. Non poco visto che l’arte contemporanea vale perché costa e dunque il prezzo è l’elemento fondamentale affinché una cosa qualsiasi, anche la più astrusa, sia definita un’opera d’arte e possa essere scambiata come moneta sonante, al pari di un’azione.

Il cuore di Jeff Koons “Sacred Heart (Magenta/Gold )” nello stand Gagosian ad Art Basel 2019. Photo: FABRICE COFFRINI/AFP/Getty Images.

E qui si innesta, il discorso sulle case d’asta, il cui girò d’affari (30 miliardi di dollari) vale circa la metà del mercato dell’arte (64 miliardi di dollari nel 2019). Lo strapotere delle case d’asta si esalta proprio nel fatto che l’unico prezzo pubblico è quello che appunto si forma durante la battuta, ed è quello che vale, ed è quello che genera le star. Sempre più spesso, abbiamo però scoperto che questo meccanismo di pricing pubblico non era trasparente, bensì deviato da meccanismi ulteriori (lo shill bidding, le garanzie al venditore, il terzo acquirente garantito, le forme di aggiotaggio pur consentite, l’insider trading…). Tutto questo sistema forse crollerà.

E la cosa che mi rende felice è che se cambierà lo stile molte opere di questa “arte contemporanea” ci sembreranno orrende, assurde e alcuni collezionisti dovranno buttare nella spazzatura gli squali, gli emoritratti, le installazioni fatte di muco e piscio, e altre infinite amenità del genere. E forse riprenderanno forza quegli artisti che sono stati esclusi dalla roboante festa del concettuale e delle sue speculazioni, faranno più affari quelle gallerie che hanno continuato a puntare sulla vera arte, magari sulla “pittura pittura”, che hanno insistito sui valori dell’arte della tradizione, che hanno continuato a proporre arte di valore a prescindere dal prezzo, arte che ancora assolvesse a quel desiderio dell’uomo di trovare un di senso dell’esistenza.

Speranze

Potrebbe però essere una vana speranza. I super ricchi che sostengono questa arte inutile di fronte alla morte la dovranno sostenere ancor di più per non veder diminuire il loro capitale, e nonostante il lockdown essi sono rimasti incredibilmente ricchi e forse continueranno a comprare arte assurda. E poi alcuni curator e intellettuali, come Obrist, hanno lanciato l’idea di un intervento pubblico per sostenere gli artisti, come fu all’epoca del New Deal dopo la Grande Depressione; un’idea giusta se le decisioni non saranno lasciate ai soliti noti, quelli che nel nome di un mercato spregiudicato e opaco hanno costruito il loro successo, ed ora vorrebbero soldi pubblici per continuare i loro affari.

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