GUERRIGLIA. Dialoghi d’arte contemporanea emergente nei suoi contesti di r-esistenza
*2 – Roma – Giulia Crispiani
Giulia Crispiani (Ancona, 1986) è artista e scrittrice, vive e lavora a Roma dove collabora con la redazione di Nero Editions e il Teatro di Roma.
Qual è il tuo rapporto di r-esistenza con Roma, città in cui ora vivi?
Ah quante cose potrei dire di Roma, probabilmente tutte banali. A Roma ci sono ritornata per caso, perché vivevo in Olanda e mi mancava il sud. Il sud come accezione di sud. Poi mi sono detta che “tornare a casa” sarebbe stato il modo più sincero di tornarmene al Sud. Perché dopo 9 anni mi ero persino quasi dimenticata che al sud io c’ero cresciuta e che ero fatta di sud, che al nord in qualche modo mi ci ero adatta per spirito di sopravvivenza. Ora dico ai miei amici del nord che Roma è probabilmente il confine, il passaggio, la porta, l’ingresso del sud globale. Io sono cresciuta nelle Marche, se vogliamo zona ibrida tra sud e nord.
Dopo un lento anno passato a chiedermi cosa ci facessi, a Roma mi sono ritrovata perché non c’era un’opzione migliore. Roma in un certo senso mi aveva scelta, offrendomi un mezzo lavoro, una stanza; mi aveva convinta con un motorino e, siccome a Roma c’avevo già vissuto 10 anni prima, sapevo che sì, con il motorino ce l’avrei potuta fare.
Il compromesso l’ho raggiunto quando mi sono resa conto che Roma mi va perché Roma è l’inizio del sud, ma al tempo stesso il sud lo contiene, contenendo insieme tante altre città: a Roma mi ritrovo a Jakarta, al Cairo, ad Atene, a Tehran, a Beirut, o altri posti in cui sono stata. Con gran sollievo, l’unico posto che non vi trovo è Amsterdam, che mi aveva annoiato a morte, come simbolo estremo dell’ipocrita efficienza del nord, della gentrificazione, della pulizia, della coolness.
Ecco, Roma non è cool. Roma è sincera, è sporca, è rumorosa, è teatrale, è violenta, è precaria, talvolta dolorosamente bella. Roma è stratificata, in strati sociali e strati di storia, tutti mescolati un po’ a caso ma comunque tutti visibili, in un modo o nell’altro. Diciamo che a Roma in un certo senso mi sono liberata da quell’inutile esistenzialismo nord Europeo e dalla critica (esotica e colonialista) che produce.
Roma, città d’approdo ma non d’origine. In che modo pensi che le tue diverse esperienze come artista in contesti esteri abbiano influito il modo di rapportarsi con la vita e il sistema dell’arte italiani e, nello specifico, romani?
L’arte col suo sistema è un modo come un altro di fare le cose. Per me forse è più uno strumento di analisi, un modo di leggere il mondo. Potrei parlarti delle differenze tra un sistema e l’altro, ma non del mio posizionamento rispetto alla scena. Ci navigo dentro perché mi consente una certa flessibilità negli argomenti e libertà di movimento. Benché per lavoro collabori con realtà editoriali e istituzionali, la mia pratica personale va avanti ad espedienti, in modo piuttosto indipendente.
Ho deciso che la carriera non mi interessa, lavoro per non dovermi preoccupare della precarietà e non dover sottostare alla competizione inerente al sistema, sia italiano che internazionale. Porto avanti ciò che mi interessa, se arrivano proposte di collaborazione interessanti le colgo. Ma se mi chiedessi cosa faccio nella vita, forse ti direi che per ora sono un editor e l’arte è un attività che porto avanti a lato, senza dover scendere a compromessi, seguire dei trend o abbracciare hot topic senza crederci troppo. Domani probabilmente risponderei in un altro modo, forse con più entusiasmo. Considerando che per me scrivere è più una necessità che altro, il lavoro che faccio tiene allenata e affina, se vuoi, la mia capacità di espressione: la cosa che più mi interessa è il potenziale politico della rappresentazione e l’arte è un territorio speculativo aperto. Ma il sistema dell’arte, quello vero, il mercato, mi interessa poco. Dipende da quanto vogliamo essere romantiche.
La parola, la scrittura, il linguaggio sono elementi cardine della tua produzione artistica. Come si è sviluppato il rapporto con le diverse modalità di comunicazione vivendo in luoghi in cui non ti esprimevi nella tua lingua madre?
Well, prima di andare in Olanda, nel 2009, non scrivevo granché. Da quando ero adolescente ho sempre tenuto un diario, ma non ho mai preso sul serio la mia vocazione. Poi in Olanda, in Accademia, mi sono ritrovata a confrontarmi anche con la teoria e a dover scrivere piccoli saggi. I miei diari sono sempre stati miei, li ho sempre considerati un bacino di materiale troppo imbarazzante da condividere fino a che, qualche anno fa, non ho individuato il loro potenziale politico.
Al femminismo, per esempio, ci sono arrivata tardi, in un processo di emancipazione e di autocoscienza molto lento. Quando questo incontro è finalmente avvenuto ero all’estero, per necessità ovvie leggevo e scrivevo in inglese, la lingua in cui studiavo. Quando sono tornata in Italia, dopo quasi dieci anni, mi sono resa conto del mio deficit. Ora l’ho un po’ recuperato, ma resto comunque titubante sul mio italiano.
Un altro aspetto di cui mi sono resa conto abbastanza tardi è che il linguaggio, la lingua e la sua padronanza sono una questione di classe. Non parliamo tutt* la stessa lingua: lo studio, prima, e l’uso compulsivo, poi, sono gli unici strumenti per reimpadronirsene, specialmente se si viene da una famiglia dove non vi è altra “cultura” che quella televisiva.
Considerando un hold on di 9 anni, sento di avere ancora tanto lavoro da fare. Tutt’ora scrivo i miei diari e lavoro (in parte) in inglese, lingua su cui, ahimè, sono molto più confident. Non nascondo che provo una certa invidia per la padronanza altrui, ma sto recuperando.
Un altro concetto intorno al quale si orienta la tua ricerca è il corpo. Su che temi ritieni che possa vertere la r-esistenza del corpo e della corporeità in una scena come quella romana?
Il corpo nella pratica non lo uso, o meglio, lo uso solo in termini di presenza. Uso la voce, benché sia consapevole di averne poca padronanza. Del corpo ne parlo. Parlo di erotica della sovversione e di erotismo, parlo di presenza e contatto. Parlo di corpi in strada, anche se non ho mai preso parte a una rivoluzione vera e propria col mio di corpo. Però parlo sempre di un corpo fra corpi.
Parlare di questo argomento nel momento storico attuale è piuttosto frustrante, ma la verità è che auspico un corpo consapevole dell’interdipendenza con l’altro. Parlo di un corpo libidinoso, consapevole che quel corpo è il territorio che abito, l’unica cosa che veramente possiedo. Questo corpo è il mio tramite con l’esterno.
La scena romana non la conosco, non mi interessa (rispetto all’arte contemporanea stitica dei musei e delle gallerie romane, direi molto meglio Teatro India, Short Theatre e Roma Est), ma so che per esempio ci si abbraccia e bacia molto, oltre a stare molto in strada, una cosa che in questi giorni mi manca molto.
La parola e il corpo confluiscono nel tuo operato artistico, che sfocia nel campo della performance, della recitazione. Come si è sviluppato il progetto Rivolta (2019), realizzato con Davide La Montagna e Gianmarco Marabini – Kaya Mignonne, curato da CampoBase per ArtVerona 2019?
Rivolta era uno tra i vari progetti senza budget realizzati (per di più) per una fiera. Non parteciperò mai più a una fiera, lo giuro. Se dovessi partecipare, andrà il mio lavoro, ma non io.
È stato molto bello lavorare con tutti i membri di Campo, oltre che naturalmente con Davide e con Gianmarco – Kaya, cui mi sono molto affezionata. Per me conta più il tempo qualitativo che l’effettivo risvolto del progetto.
Per questi motivi, l’obiettivo era best result with minimum effort e, come al solito, la materia prima che sfocia senza sforzo dal mio essere nel mondo sono i miei diari. A seguito della mostra What if every farewell…, svoltasi negli spazi di Esthia a Roma nel 2018, avevo individuato un potenziale nella lettera d’amore come gesto politico. Il risultato per Rivolta sono state cinque lettere d’amore da distribuire al pubblico, insieme a cinque poster da affiggere in città di nascosto la notte, solo per fare un dispetto alla stessa Verona che aveva ospitato l’infame Congresso Mondiale delle Famiglie (che solo a cercarlo sul browser mi viene il vomito) qualche mese prima.
I testi erano stati composti dopo un incontro con Davide e Gianmarco, integrati dalle loro riflessioni e punti di vista. Sono molto affezionata al titolo, sia perché una lettera è sempre rivolta a qualcuno, sia per l’incipit rivoluzionario che per il potenziale trasformativo che porta con sè. L’intenzione di Davide era di svelare un processo più che un risultato, in questo è chiaro che Gianmarco non esiste senza Kaya e viceversa.
Ecco, peccato la fiera davvero.
La collaborazione con altri artisti, nello specifico con Golrokh Nafisi, ha portato al progetto A Manifesto Against Nostalgia (2019), ad oggi proposto in diverse sedi e circostanze. Che ruolo assume il contesto nelle modalità di riproposizione di questa perfomance, per la prima volta proposta a Teheran?
A Manifesto Against Nostalgia non è inizialmente nato per Tehran. Tutt’altro. Tehran è stata l’occasione per presentarlo. Il manifesto è stato in gestazione per tre anni. Sono stata successivamente invitata a partecipare ad una mostra a Tehran e con Golrokh (non semplice collaboratrice ma, come dico sempre, quasi “cervello appendice”) abbiamo deciso che era arrivato il momento per dargli forma: l’intenzione era quella di creare un format trasportabile e traducibile in lingue e contesti diversi.
La seconda iterazione a Roma ne è stata una conferma. Il manifesto non avrebbe senso al di fuori della sua mobilità, poiché nasce dalla consapevolezza che il fascismo non sia un fenomeno locale ma diffuso. La necessità è infatti quella di alimentare e articolare un discorso che contrasti il motto patriarcale del “make … great again.” Ho rimosso America perché ad oggi non è un problema localizzato.
Per questo il Manifesto è un format pensato per viaggiare ed essere informato dalla lingua e tradizione musicale locale, ed essere enunciato in lingue diverse – ad oggi sono quattro: inglese, farsi, italiano e olandese. Prima che il mondo si fermasse, ci immaginavamo un archivio crescente.
Come si è strutturato, invece, Il giardino della città continua(2019), concepito, insieme a Ahmadali Kadivar e, nuovamente, Golrokh Nafisi, per il contesto specifico del Giardino Botanico di Roma?
Il giardino della città continua è stato un incontro estemporaneo, improvvisato. Golrokh e Ahmad erano in Europa con dei lavori che Golrokh aveva presentato alla fiera di Rotterdam. Con Flavia Prestinizi, con cui avevamo lavorato insieme a Tehran per il Manifesto, abbiamo cercato una location che potesse ospitare una lettura al di fuori dello spazio dell’arte. Flavia ha proposto il giardino e, entusiaste, abbiamo scritto il testo e creato un percorso che lo contestualizzasse. Ne è venuto fuori un discorso sulla conservazione e preservazione, oltre che sulla catalogazione, sul giardino come biblioteca, informato dai nostri ricordi, i nostri discorsi e i nostri viaggi. La cosa più bella è che ci siamo finte studentesse per aver accesso al giardino e siamo riuscite a portarci dentro tanti amici in un soleggiato pomeriggio di inizio marzo.
What if Every Farewell Would Be Followed by a Love Letter (2019), un luogo fisico in cui tempo, luoghi, erotismo, vita si fondono. Un libro per indagare la condizione umana da cui nasce inevitabilmente la presupposizione di un oltre dopo l’addio?
What if Every Farewell Would Be Followed by a Love Letter è nata come proposta. Siccome è stata raccolta con entusiasmo ha trovato la forza di farsi libro. Ma il libro non l’ho scritto io, né indaga niente. Il libro si è fatto da solo, noi l’abbiamo solo trasformato in un oggetto. Dico noi, perché devo liberarmi da questo imbarazzo dovuto alla pretesa di aver scritto un libro, come mi dicono spesso. No. Union Editions è un progetto nuovo, non mio ma in incerto senso nostro, perché il suo slogan è never alone, e il libro ha senso solo in quel contesto, dove le lettere d’amore si scrivono a un destinatario che non esiste, si scrivono da sole per il piacere di scrivere. Questo libro è un gesto, così come lo è tutto il progetto Union. La lettera d’amore ha senso solo come evento, come gesto politico o atto liberatorio. Altrimenti saremmo troppo attaccate ai ricordi, saremmo, appunto, nostalgiche.
What if Every Farewell Would Be Followed by a Love Letter è, più che altro, un tributo a tutt* gli/le amanti passat* e futur*. Un (forse fin troppo) sincero ringraziamento. Anche il titolo è ipotetico, non prescrittivo.
La tua lettera d’amore senza un addio per Roma?
Ho scritto questo testo il 12 Agosto 2019. Quest’estate ho deciso di rimanere a Roma, ferma e più o meno sola, per tutto il mese di Agosto. Non so se ti sia mai capitato di rimanere a Roma ad agosto. Be’, non è tanto diverso da una città in lockdown. In questi giorni in cui La Repubblica pubblica quelle foto di Roma vuota e scrive “Roma come non l’avete mai vista” io vorrei rispondere: “No, Roma ad agosto è così. Ogni agosto, Roma si svuota.”
Questo testo non è una lettera d’amore per Roma, ma scritta a quattro mani con Roma.
“Quell’estate rimanemmo a fare gli esteti. Rimanemmo a Roma per empatia verso coloro che non potevano partire. Alcuni per lavoro, altri per motivi di salute, altri di denaro, altri perché non avevano ottenuto visti. Altri per noia. Chi si incontrava al supermercato era contento di sentirsi meno solo e meno sfortunato, dentro il locale climatizzato anche meno sudato. Al supermercato eravamo tutti rivolti al consumo e ci dimenticavamo per un po’ delle nostre isterie diurne dovute alla solitudine e al caldo.
Dal fruttivendolo era comunque sempre pieno di gente, dall’egiziano. Quella settimana lì tutte le serrande rimanevano abbassate. La luce era più gialla del solito, quasi a voler aumentare l’esotismo cittadino, tanto che in qualche modo ci sembrava anche a noi di esser partiti, perché ci ritrovavamo in una città che di solito era tutt’altro. Di giorno ci ritrovavamo spesso a pensare agli affetti, senza cercare troppo di immaginare però i paesaggi entro cui erano ora immersi, per non morir d’asfissia. Di giorno a Roma d’agosto, l’unica cosa che manca è l’aria. Anche lei si ritira al mare o in collina, attratta da verde si nasconde all’ombra dei pini marittimi e si diverte a far vibrare le ali alle cicale, che lusingate rimangono lì, indulgenti a flirtare. Quegli umani in pineta, sembravano così lontani dall’asfalto romano. Ce li immaginavamo sempre più in qualche modo rilassati. Sudati ma con possibilità di refrigerio. A noi invece servivano gran quantità di infusi per tenerci svegli, con il cervello bollito di agosto.
- Ma come non parti?
- No non parto. Forse tra qualche giorno. Vediamo se riesco a rimanere sobria per almeno una settimana, nel frattempo.
Forse riesco anche a tenere lontano il mio pensiero da te. Solo di notte, quando perdo il controllo dei pensieri, allora ti scrivo. Ti scrivo in tutte le lingue, perché lo so che comunque mi leggi. Quel livello di comunicazione inutile, abbandonato al primo sguardo. Quell’eterna attesa che si trasforma, di notte, in poesia. Anche il desiderio, sembra essere in ferie, e se si riattiva di tanto in tanto, è rivolto ad altr*.
Immune alla mancanza, mi ritrovo a trent’anni, in un lavoro che mi è costato altrettanto. Per l’esattezza trentadue come i gradi in interno, ad agosto. Che se ne parli di nuovo domani. Disciplina e anarchia, una lama che trafigge una rosa. Un’ancora adagiata su una rosa. Un libro dedicato ai miei tatuatori. Gli unici che possono decorarmi il corpo. Ma la lettera è per gli amanti. Amici amanti, amanti amici. Perché alla fine dovremmo solo ubriacarci e far l’amore, oltre ogni ambizione feconda, morire d’amore contro il capitale. Un amore intersezionale. Un amore che ci permetta di scegliere. Un amore senza bugie. Un piacere senza vincoli.”
Il tuo modello di r-esistenza?
Bello parlare di resistenza il 25 aprile (che per me è un po’ come se fosse Natale), o forse sarebbe meglio dire: bello parlare di resistenza ogni giorno come se fosse il 25 aprile. Parlare di esistenza meno, sarebbe auspicabile rimuovere ogni individualismo da qualunque esistenzialismo. Più politics meno identity. Più pensiero e meno autorialità. Meno concetto più presa di posizione. Potrei andare avanti, ma forse mi fermo qui.