Tra le numerose attività di questa Fase due che hanno potuto finalmente riaprire al pubblico ci sono anche i musei. Non tutti hanno potuto e/o voluto farlo dal primo giorno di via libera (lo scorso 18 maggio): le restrizioni e le nuove regole d’accesso impediscono un ritorno alla normalità. Ogni istituzione si è dovuta così adattare ai necessari parametri governativi per garantire una fruizione sicura dei propri spazi e delle proprie opere. Ma non è solo il distanziamento sociale la grande sfida dei nostri musei, molti altri aspetti dovranno essere ripensati, ricalibrati, cambiati. Ne abbiamo parlato con Tobia Bezzola direttore del MASI, Museo d’arte della Svizzera italiana.
– Com’è stato finalmente riaprire il museo al pubblico? Prime impressioni e feedback dalla ripartenza.
Il MASI è molto legato al settore turistico con oltre il 70% del suo pubblico proveniente da fuori Cantone e dall’estero. Quindi, essendo ancora limitata la mobilità, l’affluenza registrata è piuttosto bassa. Aprire i battenti è stato comunque molto importante per il pubblico locale e regionale e speriamo di poter tornare presto ad accogliere visitatori che provengono da oltre Gottardo, dall’Italia, dalla Germania e da tutto il mondo. Per il turismo internazionale probabilmente dovremo comunque attendere il prossimo anno.
– Come si può ripensare l’idea di accessibilità? Come cambierà il rapporto tra museo e fruitore? Come sono organizzate le “nuove” visite nel suo museo? Come saranno rimodulati gli spazi e il percorso espositivo?
È difficile da dire oggi, è una situazione in continua evoluzione che coinvolge la Confederazione, i Cantoni e i Comuni. Il Consiglio federale infatti emana delle direttive, che vengono a loro volta adeguate e introdotte dai Cantoni e inoltrate ai Comuni. A queste disposizioni si aggiungono le indicazioni da parte dell’AMS, Associazione dei musei svizzeri, che in collaborazione con l’Ufficio federale della cultura, elabora e adatta ampi piani di protezione per il settore museale. Francamente penso che tra due o tre settimane cadranno buona parte delle restrizioni in essere se la situazione continua ad evolvere in questo modo. Secondo le disposizioni vigenti, dallo scorso 6 giugno, abbiamo aperto le visite anche a gruppi fino a 12 persone. Per gli eventi e le manifestazioni il discorso è un po’ diverso, in Svizzera al momento il limite imposto è di un massimo di 300 persone, siccome noi raramente andiamo oltre questa cifra, possiamo tornare lentamente alla normalità rispettando le norme igieniche e le distanze sociali. A livello organizzativo invece stiamo portando avanti una pianificazione a corto termine.
– Meno numeri, più valore. Meno quantità, più qualità. Radicalizzazione sul territorio e rapporto con la comunità di cui fanno parte. Come sarà il nuovo museo d’arte (sia in senso lato che in senso stretto della sua istituzione)?
Soffermandoci sulla programmazione, quella di quest’anno è stata in parte rinviata all’anno prossimo. Stiamo lavorando, ci stiamo sforzando, per riuscire a sostituire le mostre previste con progetti pop-up più spontanei. Prossimamente apriremo una produzione di questo genere con il fotografo austriaco Lois Hechenblaikner e il suo progetto su Ischgl, villaggio turistico austriaco divenuto un focolaio della pandemia. Speriamo di aprirla a fine giugno nella sede espositiva al LAC. Stiamo inoltre progettando un’esposizione per il centenario dello scultore Hans Josephsohn da presentare quest’autunno sempre al LAC. In autunno apriremo anche due mostre della programmazione originale, cioè l’esposizione dedicata a PAM Paolo Mazzuchelli al LAC e quella su Vincenzo Vicari a Palazzo Reali. I progetti maggiori sono tutti rinviati al 2021: la mostra sulla Collezione Thomas Walther, una raccolta fotografica proveniente dal MoMA di New York, sarà in primavera; quella di Nicolas Party in estate, e infine quella di Albert Oehlen in autunno.
– L’utilizzo della comunicazione digitale e della condivisione di progetti online è stato cruciale, ma è parso altresì evidente che la fruizione fisica delle opere, degli ambienti, delle architetture non è in alcun modo sostituibile. Come possono essere integrate al meglio questi due livelli in modo che le specificità del digitale siano sfruttate come una ulteriore proposta museale?
In questo periodo abbiamo intensificato la comunicazione su Facebook, su Instagram e abbiamo cominciato a lavorare per il rifacimento completo del sito web che verrà ultimato a breve. Sui social abbiamo realizzato dei video originali di approfondimento della collezione. Anche se va sottolineato che il pubblico viene in visita al museo per vivere una particolare esperienza che il digitale non può sostituire. La visita al museo, l’incontro e l’osservazione di opere dal vivo, l’essere fisicamente in uno spazio espositivo, magari in compagnia, è qualcosa di unico. Se pensiamo all’ultima mostra, che abbiamo dovuto chiudere anticipatamente, quella di Julian Charrière ci si rende immediatamente conto di quello che intendo dire. Il lavoro di questo giovane artista svizzero aveva completamente trasformato lo spazio del museo, creando un luogo dove vivere un’esperienza sonora, visiva, olfattiva, tattile: un’installazione che coinvolgeva tutti i sensi. Ed è così che lavora l’opera artistica. Questo era già evidente prima, ma forse è diventato ancora più chiaro adesso, penso che il pubblico durante questo periodo abbia sentito la mancanza di un confronto diretto con le opere originali.
Il governo in Italia sembra un essersi un po’ dimenticato delle istituzioni e dei professionisti del mondo dell’arte nonché degli artisti. L’attenzione è sempre parsa più rivolta al mondo dello spettacolo. In Svizzera il governo e gli organi compententi come si sono mossi per aiutare il complesso e variegato panorama museale e i relativi lavoratori? Dal suo punto di vista, di cosa ci sarebbe bisogno?
La Confederazione si è mossa e ha introdotto delle misure a sostegno della cultura; le risorse sono state distribuite in base alle esigenze e ai settori maggiormente colpiti. Per le arti performative la situazione è parsa immediatamente drammatica, non potendo esibirsi, mentre per i musei la situazione è differente, avendo una collezione e svolgendo un lavoro scientifico di ricerca, tutela e conservazione. Le istituzioni museali stanno andando abbastanza velocemente verso la normalizzazione. Il piano di emergenza è previsto fino a fine giugno e probabilmente in seguito verrà rivisto, anche perché la situazione generale in Svizzera è completamente diversa rispetto all’Italia. Qui i musei statali praticamente non esistono, sono due o tre. Abbiamo quasi ottocento musei e solo un paio sono direttamente gestiti dalla Confederazione. La cultura secondo la nostra costituzione è competenza dei Cantoni e dei Comuni. Tutti i musei, o quasi, sono organizzati e gestiti da enti cantonali e comunali, la maggior parte è un misto tra privato e pubblico, come lo siamo noi. Quindi secondo questa complessità, le varie situazioni sono state monitorate e gestite soprattutto a livello locale e regionale, non come in Francia, Spagna e Italia dove i musei sono generalmente di competenza dello Stato. In Svizzera abbiamo un modello simile a Austria e Germania che è profondamente federalista, in questo senso il sostegno da parte della Confederazione è stato percepito come un’eccezione molto positiva. Questi aiuti sono portati avanti dalla Confederazione in collaborazione con i singoli Cantoni e ogni istituzione è stata aiutata in maniera diversa da un’altra, ogni realtà è stata valutata autonomamente
Museo d’arte della Svizzera italiana, Lugano
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