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L’esotismo a casa dei miei. Intervista a Clémence Elman, finalista al Festival de Hyères

© Clémence Elman
© Clémence Elman

Selezionata tra i finalisti della sezione Fotografia del Festival de Hyères 2020, con il suo progetto La fin des voyages Clémence Elman riflette sul tema dell’esotismo e del viaggio: impossibilitata a girare il mondo, lo fa nella tenuta borghese dei suoi genitori a Pau, nel sud-ovest della Francia.

La testa imbalsamata di un’antilope giace a terra, tra una tenda a righe e la moquette. Le punte delle corna sono imballate con il pluriball, chiuso a sua volta con il nastro adesivo. Questa immagine è emblematica del progetto con cui Clémence Elman si è classificata tra i finalisti del Festival de Hyères, in scena nell’omonima cittadina della Costa Azzurra dal 15 al 18 ottobre. Infatti, quelle corna impacchettate insinuano in chi guarda il sospetto che qualcosa non vada, che sia fuori posto: c’è un contrasto tra natura e artificio che va dritto al cuore del progetto della fotografa, rendendo chiaro sin da subito che in La fin des voyages tutto quel che si vede non è come sembra. Nata a Parigi nel 1992, Clémence Elman è cresciuta a Pau, un’idilliaca città d’arte ai piedi dei Pirenei, dove ancora oggi vivono i suoi genitori. È qui che durante l’estate 2019, impossibilitata a viaggiare per motivi economici, ha scelto di esplorare un tema che le sta a cuore: l’esotismo e più in generale il viaggio, interrogando i valori borghesi della sua famiglia, e in particolare quelli legati alla relazione con “l’altro” e “l’altrove”, in quel sottile equilibrio tra ammirazione e volontà di dominio.

© Clémence Elman
Ciao Clémence. Ci racconti com’è nato il progetto La fin des voyages (La fine dei viaggi)? Sembra quasi profetico se pensato in relazione ai tempi del Covid-19, in cui si sente dire di continuo che “viaggiare non sarà mai più come prima”.

Ho iniziato questa serie un po’ più di un anno fa. Ai tempi frequentavo il secondo anno della scuola di fotografia di Arles e attraversavo un momento di crisi riguardo il mio lavoro; avevo diversi progetti già avviati in diversi paesi, e mi ponevo il problema della mia legittimità nel trattare un soggetto piuttosto che un altro. Così, vista l’impossibilità economica di partire all’estero, sono tornata a casa dei miei genitori e ho scelto di lavorare entro il perimetro del loro giardino, un ambiente piuttosto borghese in cui sono cresciuta. Si è rivelato il luogo ideale in cui trovare una risposta alla domanda “Qual è il mio punto di vista?”.

Il titolo di questo progetto si rifà al primo capitolo del libro Tristi Tropici di Claude Lévi-Strauss. In questo capitolo l’antropologo denuncia il villaggio globale in cui masse di turisti si spostano snaturando il paesaggio e causando la scomparsa delle comunità autosufficienti dell’Amazzonia. Il titolo stesso stesso è ambiguo perché Lévi-Strauss fa parte di una vecchia generazione di antropologi criticati per il loro modo di operare. Effettivamente il titolo fa eco al contesto attuale, è questa cosa è abbastanza inquietante… l’affermazione “viaggiare non sarà mai più come prima” si lega bene ai temi che esploro in questa serie.

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In generale, per esotismo si intende il gusto degli elementi o degli oggetti propri di ambienti estranei al proprio paese e alla propria cultura. Che cosa rappresenta per te e come hai riflettuto alla messa in scena di questo concetto?

Per me l’esotismo esprime il concetto secondo cui colui che trova un luogo “esotico” si considera come al centro di un pensiero dominante: “gli altri” possiedono delle culture che ammira, ma di cui non vorrebbe mai fare parte. È un termine che indica un territorio abbastanza sfocato. Si collega al concetto di altrove, che non indica un luogo preciso ma un luogo eterotopico, che diventa ricettacolo dei fantasmi che ciascuno vi crea. Al contempo, però, è un motore che alimenta un immaginario di cui i territori sono reali, e diventano oggetti di desiderio. Oltre a ciò, a partire dalla ricerche teoriche svolte per la mia tesi di laurea (che trattava la giungla come territorio di dominazione) la serie indaga quei rapporti che esistono quando si fantastica su un “altrove”: un fantasticare/ammirare volto a meglio dominare.

Quindi sono partita dal rapporto che i membri della mia famiglia hanno con il viaggio: sono tutti dei viaggiatori appassionati, perciò la casa è piena di oggetti arrivati da chissà dove. Ho poi spaziato ai riferimenti alla storia dell’arte occidentale, ai ricordi d’infanzia, agli archivi fotografici familiari. Così ho creato un nuovo spazio visivo in cui unisco realtà e fantasia, creando una “realtà immaginaria”. Questa serie tocca anche altri argomenti, come la società dei consumi, il nostro rapporto con la natura, l’appropriazione da parte dell’industria dei motivi vegetali, la questione infinita del rapporto tra natura e cultura.

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Come hai detto, i soggetti delle tue fotografie sono membri della tua famiglia o amici cari. Come ti sei relazionata con loro nel creare questa serie e perché hai scelto, talvolta, di nascondere i loro volti?

Queste fotografie sono più delle mie proiezioni, o comunque delle proiezioni collettive, piuttosto che una documentazione sui miei parenti o amici. Si tratta più della relazione che ho con loro che del modo in cui accettano di posare per me e di come costruiamo insieme una fotografia. Diventano come attori della mia docu-fiction. Ecco perché i corpi sono inquadrati, e sono importanti, ma mi interessava di più una presenza umana generica che contrastasse con gli oggetti rappresentati. Forse gli oggetti sono più centrali che non le persone stesse.

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La tua estetica mischia umorismo e benevolenza, ma non risparmia una sorta di critica verso le attitudini culturali associate all’esotismo. Come hai mescolato questi sentimenti contrastanti?

Sì, c’è dell’umorismo, che fa parte del mio carattere e della relazione che ho con i membri della mia famiglia. Ma il limite tra umorismo e ironia è molto sfumato, quindi lo utilizzo per criticare le attitudini culturali legate all’esotismo, come dici. Penso che a volte l’umorismo, o in generale un’apparente leggerezza, possa essere utile a mostrare la violenza o l’assurdità di una situazione.

© Clémence Elman
Ad esempio, nell’immagine in cui ritrai i tuoi genitori sdraiati in giardino in costume con una corona di fiori in testa c’è un ché di vagamente ridicolo. Immagino fosse intenzionale. Che cosa ne pensano loro?

Sì, assolutamente, c’è un côté ridicolo che era del tutto voluto. Penso che conoscano il mio modo di lavorare e accettino di posare per me: lo trovano divertente, sanno che quando si prestano come modelli quelli che rappresento non sono davvero loro. Al contempo accettano l’autoironia e la consapevolezza di appartenere a una determinata classe sociale.

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A primo impatto le tue fotografie sembrano quasi sempre posate. Quanto c’è di prestabilito e quanto di spontaneo e casuale nel tuo lavoro?

Sì, le mie fotografie sono posate, ma rimangono abbastanza spontanee. Parto da un’idea che ho in testa dell’immagine che voglio scattare, preparo l’inquadratura, gli eventuali accessori e chiedo alla persona di posare. In genere nessuno ha tempo, quindi devo sbrigarmi. C’è un contrasto abbastanza evidente in questo tipo di rappresentazione: le fotografie che costruisco sono piuttosto oniriche, mentre il momento dello shooting è caotico, i modelli sono di fretta, poco disponibili eccetera. Sto scrivendo un testo che riflette proprio su questo aspetto.

© Clémence Elman

Per conoscere altri lavori di Clémence Elman: https://www.instagram.com/clemenceelman/?hl=it

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