Il Notturno di Gianfranco Rosi in cui la guerra riesce sempre a trovare il suo spazio
Tre anni di ricerca, incontri e storie tra Libano, Siria, Kurdistan e Iraq. Superare il confine di una realtà conosciuta solo attraverso i notiziari. Un racconto del quotidiano attraverso istantanee di vita, sotto il peso delle bombe, letteralmente, dispiegato all’imbrunire. È il Medio Oriente raccontato da Gianfranco Rosi, regista di Notturno, pellicola presentata alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dal 9 settembre al cinema. Dopo il successo di Sacro Gra, Leone d’oro nel 2013, e Fuocoammare, Orso d’oro al festival di Berlino 2016, il regista italiano nato ad Asmara divide la critica.
Rosi racconta i suoi tre anni da osservatore eliminando la mappatura della geografia, senza luoghi fisici, senza confini, senza che le storie presentate allo spettatore si intreccino o abbiano una cronologia temporale; senza che il giorno e la notte rispettino la loro naturale ciclicità. Racconta con i silenzi rotti solo da spari lontani. Racconta con il susseguirsi di immagini fisse, stilisticamente egregie, e sequenze più lunghe, personaggi che riprende alla fine del documentario oppure interrompe senza che si sappia più nulla. Pochi primi piani.
Un intreccio che ha come filo conduttore la terribile presenza della guerra attraverso un occhio distaccato. Non ci sono esplosioni, non c’è sangue e le lacrime sono poche ma la guerra la si sente sempre. Nelle pareti di un carcere, sullo sfondo di una giovane coppia che è al bar e quasi non ci fa caso agli spari, nel cielo nero che si trasforma in rosso per le esplosioni mentre un cacciatore è in cerca di anatre o nei disegni di bambini a cui la fanciullezza è stata strappata come la loro famiglia e si ritrovano orfani a raccontare alla propria maestra di quella volta che se piangevano l’Isis li picchiava ancora più forte.
L’apice dell’emotività, dopo momenti più statici, viene raggiunta proprio in questo punto del documentario in cui i bambini ci appaiono tali solo per la posizione scomposta che assumono nei loro banchi e non per quei racconti così terribili gestiti da adulti come fossero normalità. Il punto è la normalità della guerra in una società che non ha scampo, che non ha un confine tra la vita e l’inferno, osservata invece da una società che ha paura sì, ma forse del futuro.
In Notturno il futuro nemmeno si percepisce, e il tempo è dettato da gesti metodici di sopravvivenza come la sveglia presto per il bambino che deve ripercorrere le strade dei cacciatori e offrirsi di aiutarli per cinque dollari al giorno, ogni giorno, per poter mantenere i suoi sei fratellini. Il film di Gianfranco Rosi non è un documentario che vuole dare un giudizio o rispondere a domande, è una lente di ingrandimento sulla dimensione umana di una civiltà che ogni giorno lotta per non morire, di fame, sotto ad una bomba, per colpa di una pallottola, che lotta per rispondere all’eco prorompente della guerra, in silenzio nascondendo le lacrime.
Notturno ha diviso però la critica: dieci minuti di applausi dopo la proiezione a Venezia contrapposti a chi invece lo accusa di essere troppo esteta per essere un documentario. Senza dubbio Rosi riesce a inserire uno stile fotografico ricercato e preciso nel suo progetto e per quanto possano risultare piacevoli all’occhio le cromie contrastanti del nero e del rosso, le maglie arancioni nelle carceri, le esplosioni e la natura, le conseguenze della guerra sono impossibili da rendere “piacevoli”.