Alberi spezzati dal temporale, capanne di pescatori, pompe di benzina abbandonate. Quattro anni fa il fotografo Matteo Di Giovanni (Pescara, 1980) è rimasto bloccato dalla nebbia il giorno di Capodanno, costretto a fermarsi in un paesino sperduto nel Delta del Po: così ha preso corpo il progetto Blue Bar, diventato un libro edito da Artphilein.
Difficile non buttarci un occhio, anche incastrato in mezzo a decine di libri: copertina priva di iscrizioni, solo una fotografia sui toni del blu si staglia in mezzo al giallo melone. Raffigura una strada fangosa cinta da una vegetazione palustre che si apre e prosegue verso l’infinito. Una landa piatta e desolata che invita a una passeggiata, o a un viaggio, a cui pare impossibile dire di no. Il titolo è dietro, a caratteri cubitali blu: Blue Bar. O forse, l’opera si apre e sfoglia al contrario. A voi la scelta. Affascinato dalla circolarità del tempo sostenuta dai greci, in opposizione alla concezione lineare moderna, con il suo secondo libro Matteo Di Giovanni (Pescara, 1980) lascia massima libertà interpretativa al lettore.
Oltre ad essere un fotografo, l’autore è anche avido consumatore di libri fotografici, saggi, romanzi e musica. Così, se nella sua prima fatica I wish the world was even (Artphilein Editions, 2019) il dialogo tra immagini e testi era fortemente ispirato a The lonely ones di Gus Powell, questa seconda pubblicazione attinge da un patrimonio visivo più vasto: dall’American Photography a Joachim Brohm per quanto riguarda la fotografia e le palette cromatiche, passando per Corman McCarthy, i fratelli Cohen, Jim Jarmush, Nick Cave e Tom Waits per le ambientazioni, lo stile e le tematiche.
Protagonista, questa volta, è il Po. Che è il fiume più grande d’Italia, ce lo insegnano alle elementari: ha origine in Piemonte, segna per lunghi tratti il confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna, e tra quest’ultima e il Veneto, per poi buttarsi nel Mar Adriatico in un vasto delta. Eppure, una volta tornato in Italia nel 2014 dopo gli studi in Inghilterra, Matteo Di Giovanni si è accorto di sapere ben poco di quel fiume. Piano piano mi sono avvicinato al territorio e ne sono rimasto affascinato, racconta il fotografo. Sono stato bloccato dalla nebbia il giorno di capodanno e costretto a dormire ad Ariano nel Polesine, un paesino minuscolo immerso nel mezzo del Delta. Si può dire che da lì sia cominciato tutto. Sembra quasi un territorio a sé stante, isolato, con le proprie regole, i propri tempi e le proprie dinamiche.
Oltre che area di interesse turistico e paesaggistico, il territorio ricopre un ruolo chiave nell’economia italiana per la presenza di zone dedicate alla pesca e alla piscicoltura oltre che alla produzione ortofrutticola, basata su cereali come mais e riso. Tuttavia, scrive Brad Feuerhelm, autore del testo critico contenuto nel libro, Con l’innalzamento delle acque, l’abilità di prevedere gli effetti sull’agricoltura sul terreno diventa più difficile. Di conseguenza il Delta è osservato con speranza e preoccupazione, combinazione che crea una certa malinconia, che alcuni chiamano “Delta Blues”.
Sembra quasi un territorio a sé stante, isolato, con le proprie regole, i propri tempi e le proprie dinamiche.
Di Giovanni ha mappato la zona pianificando gli spostamenti nei vari periodi dell’anno. Essendo un territorio non proprio semplice, è stato fondamentale l’incontro con un pescatore di Scardovari, che mi ha praticamente scortato in quasi tutti i miei spostamenti per circa due anni. Mi ha dato la possibilità di farmi conoscere la gente del posto e non essere disturbato quando ero all’opera. Alla fine tutti mi conoscevano e mi lasciavano in pace. Il lavoro è durato più di tre anni, con frequenti viaggi di una o due settimane. Ma come tanti altri progetti dell’autore, potrebbe trattarsi di un never-ending project: prendo in prestito le parole di Todd Hido, che parafrasando recita più o meno così: un progetto lo sento finito quando si esaurisce la spinta di cercare, insomma quando non senti più il bisogno di scendere dalla macchina per fotografare.
E così, partendo da una tenda che aspetta solo di essere scostata, il microcosmo silenzioso del Delta si compone, fotografia dopo fotografia. E tra la natura palustre immersa nella nebbia o colpita da un sole pallido, una sottile malinconia emerge inesorabile, quel “delta blues” di cui parla Feurehelm. Ci sono mobili divorati e abbandonati in un prato, reperti industriali, bar e ristoranti chiusi, quel che resta di una barca sul ciglio di una strada. Non è una denuncia deliberata, ma una constatazione che il passaggio dell’uomo, nel bene e nel male, modifica massicciamente il paesaggio. L’aspetto dell’intervento – anche involontario – dell’uomo sulla natura è un tema che mi interessa molto ed ha tanti precedenti nella storia della fotografia. Come sempre si prende da qualcosa che è stato fatto cercando di contestualizzarlo nella situazione attuale.
Non è una denuncia deliberata, ma una constatazione che il passaggio dell’uomo, nel bene e nel male, modifica massicciamente il paesaggio.
Tra le fotografie raccolte in Blue Bar emerge, inequivocabile, l’idea di un ambiente fortemente antropizzato. Eppure, l’autore non posa mai lo sguardo su un essere umano in carne e ossa, o quasi. Al contrario del primo libro, in cui non appariva un singolo ritratto, questo si avvale della presenza di tre donne. La zona del Delta è un territorio fortemente maschile, essendo predominante l’aspetto della pesca e dell’agricoltura. Allo stesso tempo anche i bar sono posti prettamente occupati da uomini e le donne si vedono solo nelle retrovie, magari lavorano dietro il bancone o aiutano gli uomini dopo la pesca, oppure sono a casa.
Un’anziana di spalle, una ragazza che si copre parte del volto, e un’ultima che si mostra, con un sorriso lieve, all’obiettivo del fotografo. Le componenti maschili, se così vogliamo chiamarle, sono già presenti in tanti altri scatti e – secondo me – non c’era bisogno di sottolineare ulteriormente questo aspetto. Allo stesso tempo, scandiscono un ritmo nella sequenza, riportando la narrazione a contatto con l’essere umano.
A puntellare il libro sono anche diversi simboli religiosi sparsi per il Delta: c’è una croce di cemento che spunta in mezzo all’erba, avvolta nella nebbia densa. C’è quella che, circondata di fiori, commemora una persona che ha perso la vita in un incidente stradale, o una chiesetta bianca in mezzo ai campi di mais. Non sono una persona religiosa, ma sono rimasto colpito dalla massiccia presenza di simboli religiosi in tutta l’area del Delta. Nel girare ossessivamente, ho notato che si trovano per lo più nei punti di passaggio, spesso vicini al fiume, quasi ad ammonire e proteggere chi lo naviga, chi ci lavora e chi lo percorre per le ragioni più svariate. Sicuramente si tratta di una componente molto italiana e sono stato spesso combattuto se inserirli o meno e in che misura. Più che uno statement di qualcosa in particolare, si tratta di registrare quelle presenze e lasciare che chi vede il libro si interroghi e interpreti la cosa in maniera diversa. Dal mio punto di vista, aggiungono sacralità e sospensione ad un paesaggio che ha già delle venature mistiche di per sé.
Non sono una persona religiosa, ma sono rimasto colpito dalla massiccia presenza di simboli religiosi in tutta l’area del Delta. (…) Dal mio punto di vista, aggiungono sacralità e sospensione ad un paesaggio che ha già delle venature mistiche di per sé.
Per il suo primo libro I wish the world was even, pubblicato nel 2019, Di Giovanni si era spinto molto più lontano: aveva preso un’auto e tagliato l’Europa in verticale per approdare a Capo Nord. Un momento che ha segnato la sua rinascita fotografica in seguito all’incidente d’auto che lo ha visto coinvolto nel 2011 mentre era in Bosnia, e che gli ha causato l’amputazione di una gamba. Per la prima volta sono stato in grado di intraprendere un viaggio di due mesi in macchina dopo anni spesi tra ospedali e riabilitazioni varie. In fin dei conti è stato da tutti i punti di vista una sorta di messa alla prova, dovevo capire se e in che modo potevo tornare a fare fotografia.
Non posso dire che non è stato faticoso, ma allo stesso tempo mi è servito per mettere a punto una poetica fotografica che ho fatto mia da quel momento in avanti. Il titolo stesso del lavoro è arrivato anni dopo, quasi per ultimo, e nasce proprio da un desiderio irrealizzabile – un mondo senza barriere, equo e giusto. A pensarlo a ritroso, è stato il lavoro che ha fatto da spartiacque, che ha segnato un prima e un dopo dal punto di vista dell’approccio al medium fotografico.
Blue Bar segue quest’opera appena un anno dopo, rappresentando il secondo capitolo di una trilogia: a legare le pubblicazioni, il tema del paesaggio come metafora per riflettere tematiche più ampie. I wish the world was even è un lavoro che parte da una questione molto personale per poi indagare concetti più universali. Ha a che fare con la speranza, la paura, la consapevolezza, i punti di forza e le debolezze, le aspettative e soprattutto esplora il concetto di limite in tutte le sue sfaccettature. Lo stesso mi viene da dire di Blue Bar, che affronta i temi dell’incertezza e della ricerca, che sono insiti nell’animo umano e allo stesso tempo fanno parte del mio quotidiano.
Con il terzo lavoro, di cui svelo anche il titolo, Traces, mi sposto invece verso l’indagine delle radici che legano ad un determinato luogo e soprattutto dell’assenza di quel legame verso il territorio di origine. La mancanza di un senso di appartenenza. Quindi, più che radici, restano tracce di un legame solo apparente con un luogo che non senti tuo e con cui le relazioni emotive sono molto complesse. Quindi sono presenti i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, che vengono rielaborati da una persona adulta che ormai ha poco o nulla a che fare con quei posti.
Io sono nato in Abruzzo e sono scappato appena ho potuto, vivendo in varie città prima di stabilirmi a Milano. Ritornare dove sono nato nel corso degli anni è stato un modo per riflettere su tutti questi temi con uno sguardo distaccato, necessario per avere quella lucidità di analisi che altrimenti mancherebbe.
I tre lavori saranno esposti per la prima volta insieme nel 2022 alla Robert Morat Galerie, a Berlino.