Nicola Lagioia: scrittore e conduttore radiofonico barese, direttore del Salone internazionale del libro di Torino dal 2017, vincitore di numerosi premi letterari. Il più prestigioso riconoscimento, il Premio Strega, fu conseguito nel 2015, con il libro La ferocia, edito da Einaudi: la storia di una famiglia pugliese, che, con le sue menzogne, le sue apparenze ed esteriorità, le sue recondite e indecifrabili bestialità – questa è la ferocia, titolo del libro – è il ritratto spietato ma veridico dell’umanità.
Sempre per Einaudi, il 20 ottobre, è uscito in libreria il suo nuovo romanzo, La città dei vivi, descritto dalla casa editrice torinese come “un viaggio per le strade buie della città eterna, un’indagine sulla natura umana, sulla responsabilità e la colpa, sull’istinto di sopraffazione e il libero arbitrio. Su chi siamo, o chi potevamo diventare”.
Il 1º aprile 2016, esce sul Venerdì un suo reportage, richiestole dalla caporedattrice del giornale, Cristina Guarinelli, su un fatto da poco accaduto: il delitto di Collatino. Il titolo da lei scelto per il servizio giornalistico – memore del libro con cui affascinò i lettori di tutta Italia – è La ferocia a Roma. Prima con il reportage sul Venerdì, e poi con questo nuovo libro, lei ci introduce dentro uno dei casi di cronaca italiana più feroci degli ultimi anni. Un giovane 23enne viene massacrato da uno studente 29enne e da un trentenne PR romano. Massacrato: l’autopsia parlerà di martellate, coltellate, sevizie. A confessare l’omicidio è il giovane 23enne che rivela al padre l’atto che ha compiuto ma di cui non ha ancora preso coscienza. Ecco, quando il padre gli domanda chi è il ragazzo – chi è la vittima – il figlio risponde “non lo conosco”. Il carnefice che non conosce la vittima, l’oppressore che disconosce l’oppresso.
Perché tanta ferocia perpetuata senza motivo?
Sì, ma non è soltanto questo, cioè non c’è soltanto l’atto gratuito o assurdo. Perché, da una parte, uno dei giovani autori del delitto confessa subito l’omicidio prima a suo padre, poi ai carabinieri e al pubblico ministro, ma dall’altra pur egli sapendo che cosa ha fatto, non riesce a capacitarsene. Durante l’interrogatorio è come se egli chiedesse ai suoi accusatori “per cortesia spiegatemi voi come è stato possibile che io ho fatto quello che ho fatto”. E anche l’altro giovane, che è più disinvolto negli interrogatori, eppure anche lui fatica a capire cos’ha fatto e perché l’ha fatto. Quindi, cos’è che colpisce? È che, pur avendo loro “l’informazione” di quello che hanno fatto, i normali processi, schemi, concetti di libero arbitrio, di assunzione di responsabilità, di eventuale maturazione di una colpa, di eventuale maturazione di un pentimento o meno, non scattono in loro.
I due giovani si raccontano come se fossero degli spossessati, come se agissero soverchiati da forze superiori a cui non riescono a resistere. È come se non si ascrivessero il libero arbitrio. Certo, c’è la cocaina ma c’è qualcos’altro e tra questo qualcos’altro c’è anche l’incapacità di distogliersi da se stessi: se tu non riesci a distoglierti da te stesso, non riuscirai o avrai più fatica a costruirti una vera e propria e solida identità perché l’identità si costruisce attraverso una differenziazione – il fatto di riuscire a vedere l’altro – cosa che loro non riescono appunto a fare e quindi hanno un’identità crollante.
Sulla rivista da lei rilasciata al Venerdì del 16 ottobre 2020, prima dell’uscita del suo libro, ha confessato che appena sentita al telegiornale la notizia dell’omicidio si rabbuiò all’istante e sentì di appartenere a quel gruppo, ma non sa “se nella veste del carnefice o della vittima”.
Far parte di quale gruppo? Dell’insieme degli esseri umani tutti?
In realtà è come se mi fossi sentito parte in causa dalla dinamica che il caso metteva in gioco. Sì, direi far parte dell’insieme degli esseri umani, perché poi alla fine, nel libro e nella vita, siamo tutti quanti esseri umani – sia le vittime sia i carnefici – e il fatto di essere anche umani non riduce le colpe dei carnefici, mentre noi tendiamo a fare dei carnefici dei mostri e dei colpevoli, e così li disumanizziamo.
Ma, compito della letteratura è anche questo: farci riconoscere tutti quanti parte della stessa barca che è poi la barca dell’umanità. La letteratura, utilizzando la compassione come strumento conoscitivo e il dubbio come sentinella, serve anche per restituire all’umano ciò che gli è proprio: cioè, contraddizioni, ambiguità, scissioni, e lo fa anche attraverso la tragedia, che nel suo presentare eventi irreparabili e irreversibili, ci è connaturata.
La sua opera ci parla dell’innata bestialità dell’uomo e della sua istintiva brutalità: l’umana disumanità, che ci domina, inconsapevolmente. Infatti, quello che più sconvolge, e allo stesso tempo terrorizza, in questo delitto, è la mancanza di un movente.
L’assenza di una ragione che disorienta i carabinieri stessi nelle loro indagini: perché se i responsabili dei violenti e rabbiosi delitti consumati nell’ambito della criminalità organizzata risultano – almeno apparentemente – determinati e risoluti nel loro corrotto agire, invece in questo caso sembra non esserci una motivazione di fondo.
All’inizio, molti commentatori hanno avvicinato il delitto di Collatino al massacro del Circeo del 1975, perché c’erano diverse classi sociali coinvolte, ma tuttavia, qui iniziano e finiscono le analogie, perché mentre i massacratori del Circeo sono omicida fermi e ostinati, ben determinati nel compimento dell’azione malvagia, invece i giovani del delitto di Collatino sono assassini fragili.
E uno dei due giovani rivelerà la sua fragilità togliendosi la vita.
Come possono la debolezza, insicurezza, irresolutezza convivere accanto a così tanta ferocia e brutalità?
Come possono convivere debolezza e brutalità? In realtà, sono legati in questo caso. Mentre la fragilità della vittima è una fragilità incolpevole e innocente – la vittima è più fragile dei due carnefici da un punto di vista economico e sociale – invece, la debolezza dei due carnefici è colpevole e si collega al fatto che loro non riescono a lavorare su di sé, a costruirsi un’identità forte, meno volatile, meno suscettibile a cedere alla forza della violenza. Se fossero stati più forti, se avessero curato maggiormente la propria persona, interiorità, emotività – il modo in cui rapportarsi con se stessi e con gli altri – allora probabilmente non avrebbero messo in moto una catena di eventi sempre più vorticosamente violenti.
Una frase che l’ha colpita molto e che ha inserito nel libro è quella pronunciata dal papà della vittima: “Loro hanno saltato il fosso”. Cos’è questa buca che loro hanno attraversato? Dove li ha portati questo salto che hanno compiuto?
È la frase pronunciata dal padre della vittima. Io l’ho interpretata in questo modo: il padre della vittima non definisce mai i due carnefici dei “mostri” – perché non sono dei mostri – ma dice “si sono comportati come dei mostri”, “hanno saltato il fosso”, cioè hanno fatto qualcosa di inumano, ma essendo esseri umani, è qui che devono tornare, cioè sulle rive dell’umanamente comprensibile.
Due concetti fondamentali analizzati nel libro sono quelli della colpa e della responsabilità.
Cos’è la responsabilità e cos’è la colpa?
Sono due assunzioni diverse: uno si può assumere la responsabilità di aver fatto qualcosa, di aver preso una decisione, senza maturare la colpa. In questo delitto alcune cose sono saltate: sì, uno dei due giovani si costituisce, ma tuttavia, l’assunzione di responsabilità non c’è, perché, lui non dice mai “io ho fatto questa cosa”. Cioè si assume la responsabilità di quello che ha fatto, dal punto di vista giuridico, meccanico, esecutivo, ma non dal punto di vista di un vero e proprio atto di autodeterminazione, di libero arbitrio.
La maturazione della colpa quindi non ci può essere: c’è una lacerazione – tutti e due si sentono pentiti – ma se non c’è un’assunzione di responsabilità, su quali basi può poggiare questa maturazione della colpa? E poi il terzo elemento è l’espiazione o meno, ma se mancano i primi due, come ci può essere l’espiazione?
Mi permetto di porle una domanda un po’ ambigua.
Nella scelta del titolo del nuovo libro, le sarebbe venuto in mente di intitolarlo “La Ferocia”, se non avesse già denominato in questo modo il libro edito nel 2015?
Sicuramente c’è un legame con il concetto di La Ferocia: infatti, anche qui c’è una ferocia, una ferinità e un istinto di prevaricazione che vengono fuori.
C’è un filo che lega questi due libri, che però seguono una strategia completamente diversa dal punto di vista narrativo, della lingua e della struttura drammaturgico. C’è un legame, sì, però i due libri me li tengo entrambi legati al libro di appartenenza.