Il titolo del saggio scritto da Dan Hicks è piuttosto esemplificativo: The Brutish Museums. Un gioco di parole che chiama in causa uno dei musei più importanti, ampi e “violenti” al mondo.
Per tutti noi i musei sono luoghi sacri, cattedrali della civiltà o per lo meno posti in cui trascorrere piacevolmente del tempo, dove accrescere la nostra cultura e le nostre conoscenze. Ecco, Dan Hicks autore di The Brutish Museums la pensa molto diversamente. Nel suo libro i musei ospitano violenze senza fine, traumi incessanti, crimini coloniali commessi ogni mattina quando le luci si accendono, per lui i musei sono campi di battaglia.
The Brutish Museums è un appello vitale all’azione: in parte indagine storica, in parte manifesto, che chiede al lettore di eliminare i “musei brutali” e trovare un nuovo modo per farli esistere, non come luoghi di violenza o trauma ma come “siti di coscienza”. Hicks nel corso del libro si sofferma per parlare nel dettaglio della “Dichiarazione sull’importanza e il valore dei musei universali” del gruppo Bizot, emessa nel 2002, che si opponeva alla chiamata a rimpatriare oggetti nei loro paesi di origine. Sottolinea che questa dichiarazione a favore del colonialismo museale è stata fatta durante la fase di preparazione della guerra in Iraq, in un momento di incertezza per l’Occidente. In che modo i musei possono essere universali se sono costruiti su materiale rubato da tutto il mondo ma situato nel nord del mondo a beneficio del pubblico locale?
Le argomentazioni avanzate dai curatori della Dichiarazione si basano sull’idea secondo la quale gli oggetti sarebbero in qualche modo più sicuri a Londra, Parigi, New York e Berlino di quanto lo sarebbero a Lagos, Addis Abeba, Nairobi o Kinshasa. Questa è una convinzione che oltre ad essere ricolma di razzismo si è rivelata secondo quanto afferma Dan Hicks, anche infondata, visto che nella maggior parte dei musei occidentali: “la comprensione dei curatori di oggi di ciò che è anche nelle collezioni è piuttosto minima. Non sappiamo cosa ci sia. Non siamo sicuri di dove sia. Non possiamo dire con certezza come sia arrivato lì.”
La sua richiesta è semplice: restituire tutto. Questo avrebbe una duplice funzione: in primo luogo, sarebbe l’inizio di un processo di restituzione culturale a paesi che un tempo erano colonie dai loro ex oppressori coloniali. Siccome questi materiali andrebbero restituiti ai musei dei paesi in cui erano stati creati e da dove erano stati rubati, questo permetterebbe a queste nazioni di celebrare e interrogare il proprio patrimonio culturale. Ma costringerebbe, contemporaneamente, anche gli inglesi (e non solo) a fare i conti con il proprio passato coloniale che non è un passato, in realtà, ma un presente che sta dietro la vetrina di un museo