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Dimensione collettiva e autorialità. Silvia Bigi per Residenza Lido La Fortuna. Fano centro dell’arte contemporanea

Silvia Bigi © Angelo Palmieri Silvia Bigi © Angelo Palmieri
Silvia Bigi © Angelo Palmieri
Silvia Bigi © Angelo Palmieri

L’Associazione Culturale Lido Contemporaneo, in collaborazione con il Comune di Fano – Assessorato alla Cultura e Beni Culturali, presenta Lido La Fortuna. Un progetto triennale, con epicentro la città di Fano, che ogni anno a maggio vedrà la realizzazione di una Residenza d’artista volta a promuovere e sostenere il lavoro di giovani artisti sul territorio fanese, in un confronto serrato e dialettico con le peculiarità identitarie e intrinseche del luogo e con la comunità intera. Per la prima edizione, che si terrà dal 17 al 30 maggio presso il Symposium Quattro Stagioni di Cartoceto (PU), sono stati invitati sei artisti, tra i maggiori talenti nazionali e internazionali. I temi al centro del progetto, con i quali gli artisti si confronteranno, sono: il Ritorno; il Locale; il Periferico; il valore e la valorizzazione del Territorio (la matrice naturale e quella culturale); l’idea di Comunità; la Contaminazione tra pratiche e linguaggi.

Ogni settimana ArtsLife presenterà gli artisti ospiti del progetto (#1)

Parola a Silvia Bigi.
Tirando le somme di questo anno pandemico ancora in essere. Il tuo lavoro, il tuo essere, il tempo, lo spazio. Dimensioni e considerazioni.

Tirare le somme di questo anno pandemico è davvero un’ardua impresa, innanzitutto perché lo sento come uno spazio che sto ancora attraversando, anzi, uno spazio che mi sta letteralmente trasformando. Ho la percezione di vivere qualità spazio-temporali completamente diverse: un tempo sospeso, dilatato, e insieme una nuova geografia, descritta da uno spazio circoscritto che ha modificato (ritualizzandoli) abitudini e gesti, nel quotidiano come nella pratica artistica. Lentamente, sto cercando di capire come tutto ciò abbia attraversato il mio pensiero. Durante il primo lockdown, sono partita dalle immagini archetipiche: ho chiesto a 39 persone, di diversa età e provenienza, di raccontarmi un sogno notturno avuto dall’inizio della pandemia, per poi tradurlo in immagine attraverso un algoritmo di apprendimento automatico. Volevo raccontare il grande impatto che la pandemia stava avendo su di noi senza facili (e premature) razionalizzazioni. Sentivo che si stava delineando un passaggio storico delicato, che per essere descritto avrebbe richiesto una certa distanza: proprio per questo ho deciso di lavorare su immagini latenti, residue: immagini che non possono e non devono essere spiegate. Questo processo ha in un certo senso “smaterializzato” la mia pratica, che già stava andando verso una decostruzione dell’immagine fotografica. Riflettevo sul fenomeno dell’iper-visione, sul culto dell’immagine – il culto contemporaneo per eccellenza – e sul modello culturale che l’immagine prospettica incarna, quindi le mie intuizioni procedevano già in questa direzione. L’idea era quella di distruggere per ricostruire, riprogettando nuovi dispositivi, nuove forme di resistenza. Forse la pandemia è stata l’occasione per osservare, come attraverso una lente di ingrandimento, in che modo le immagini pervadono il nostro quotidiano: non tanto criticando il fenomeno, piuttosto cercando soluzioni. Le immagini nate da queste nuove riflessioni sono immagini astratte, dalle qualità pittoriche, eppure frutto della rielaborazione di immagini preesistenti, prese in modo arbitrario dalla rete. Il lavoro rappresenta dunque anche la volontà di utilizzare questo flusso indistinto, di trasformare questo inquinamento visivo in una sorta di alfabeto che possa generare un nuovo immaginario, una nuova iconografia. Mi sarebbe piaciuto anche lavorare su una dimensione maggiormente personale e intima, sul corpo ad esempio, ma credo che ci arriverò presto.

Silvia Bigi, Backdrop, dalla serie From dust you came (and to dust you shall return), 2020
Silvia Bigi, Backdrop, dalla serie From dust you came (and to dust you shall return), 2020

Ricerca, locale, territorio, comunità. La residenza come un ampio e trasversale atto di resistenza.

Dal 2016 ho avuto la fortuna di partecipare a diversi programmi di residenza artistica: Croazia, Catalogna, Valle D’Aosta, Québec. Una residenza è un atto di resistenza è vero, in primis all’abitudine, e in particolare a quella di lavorare sempre in un’area geografica circoscritta. La residenza è un piccolo cortocircuito, mette in discussione i tuoi confini e li ridefinisce, lasciando traccia del tuo passaggio nei luoghi in cui hai operato.

La residenza obbliga inoltre ad uscire dalla propria comfort zone, dal proprio spazio mentale – perché lo spazio geografico è anche uno spazio mentale, o comunque contribuisce a definirlo. E’ importante per me avere il coraggio di sperimentare, sia sul piano formale che su quello concettuale, deviando il proprio tracciato abituale. Da queste esperienze nascono cose estremamente interessanti, che poi richiedono un tempo per essere metabolizzate e riassimilate nel proprio lavoro.

Silvia Bigi, urtumliches Bild (studio), 2020
Silvia Bigi, urtumliches Bild (studio), 2020

Contaminazione, dialogo, osmosi: punti fondanti di una residenza.

Penso che contaminazione e dialogo siano pratiche da riattivare urgentemente ora, proprio perché la nostra ricerca è sempre più chiusa dentro ai nostri studi e questo ci porta a uno scollamento dalla realtà. Certo, c’è il web come spazio condiviso, ma anche lì reiteriamo un certo individualismo. Credo che lavorare in una dimensione collettiva sia oggi la strategia più salvifica e intelligente che possiamo mettere in atto. Nei miei ultimi lavori sto riflettendo sul concetto di autorialità, così cristallizzato nell’arte contemporanea nonostante gli innumerevoli tentativi – storicizzati o meno – di decostruirlo. Vorrei approfittare perciò di questa occasione per capire fin dove il concetto di autorialità può essere spinto: muovermi nella direzione di un incontro, nella profonda necessità di fare comunità come atto di ribellione, come vera e propria azione politica, proprio perché vedo nell’individualismo un fallimento delle ragioni stesse del fare arte.

Silvia Bigi, Family Album, dalla serie From dust you came (and to dust you shall return), 2020
Silvia Bigi, Family Album, dalla serie From dust you came (and to dust you shall return), 2020

Fotografia. La tua ricerca, i tuoi riferimenti, il tuo linguaggio, tecniche e materiali prediletti.

La mia ricerca si muove attraverso diversi mezzi e linguaggi – fotografia, video, disegno, installazione, suono, parola – e analizza la relazione che intratteniamo con le nostre memorie private e collettive. Negli ultimi anni, la mia pratica ha subito un vero e proprio “cambiamento di stato”: la fotografia si è inesorabilmente dissolta, dopo varie ibridazioni e tentativi di sconfinamento: immagini fotografiche che sono state letteralmente cancellate, da cui ho ottenuto una polvere utile per riscrivere nuove storie, ma anche parole che hanno sostituito immagini e persino immagini prodotte da intelligenze artificiali. Ritengo che l’immagine costruisca il pensiero e il pensiero costruisca l’immagine, in un rapporto reciproco.

Fonti d’ispirazione (letteratura, musica, cinema…)

I riferimenti, le influenze, io li percepisco sotto pelle. Sono invisibili, assimilati totalmente dentro di me. E sono così tanti che non riesco a metterli a fuoco nella loro complessità. Se penso tuttavia alle cose che mi hanno toccata più di recente (e che quindi non hanno ancora preso posto in uno spazio interiore) ripenso ad “Autoritratto” di Carla Lonzi, un libro che credo tutti gli artisti dovrebbero leggere, per riappropriarsi di uno spazio di libertà che spesso oggi viene a mancare nel sistema dell’arte, proprio perché è un sistema piramidale, fatto di dinamiche di potere e questo può allontanare l’artista dalla sua vera natura. Poi c’è “Chthulucene” di Donna Haraway, un libro folle, e quello che amo in particolare del testo è l’utilizzo sovversivo del linguaggio. L’argomento poi è di grandissimo interesse, ovvero il tentativo di esplorare – come recita il suo sottotitolo – strategie per sopravvivere al nostro povero pianeta infetto. E poi gli scritti di Louise Bourgeois, che ho iniziato in questi giorni. Sincronicità, da due mesi soffro di un grave disturbo del sonno e ho scoperto già dalle prime pagine che anche lei ne ha sofferto per tutta la vita. Un’ispirazione costante è il rapporto con i miei studenti, in quella che io ritengo la mia opera migliore: la piattaforma Percorsi Fotosensibili. In quanto scuola artistica online genera un’interazione costante, ed è uno specchio che riflette chi sono.

Progetti attivi, progetti futuri.

Progetti in itinere: continuerò ad utilizzare le immagini archetipiche come osservatorio dello stato delle cose. Donerò le polveri ottenute dal raschiamento delle mie immagini vernacolari ad amici artisti, chiedendo loro di riutilizzarle per nuove opere. Il capitolo finale di questa esperienza sarà poi lasciare uno spazio partecipato, una sorta di studio d’artista dove il visitatore avrà a disposizione le polveri condensate grazie a diversi leganti, che potranno utilizzare come meglio vorranno su tele vergini. Progetti futuri molti, molte idee, alcune cose in cantiere, altre ancora solo teoriche. Mi piace molto lavorare sulla ricerca, e mi interessa molto aprire, condividere ciò che intercorre tra l’idea e il risultato finale. E’ qualcosa che ho sempre fatto, sin dai primissimi lavori realizzati, proprio perché sento che il processo creativo è spesso inaccessibile e aprirlo significa innanzitutto renderlo più democratico. Vorrei un’arte più inclusiva, e con questo non intendo più semplice e immediata, intendo dove c’è spazio per entrare e capire.

Silvia Bigi, The process, dalla serie From dust you came, 2020
Silvia Bigi, The process, dalla serie From dust you came, 2020

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