Cantautore, compositore, regista e, tra le altre cose, anche pittore. Franco Battiato è stata una figura irripetibile della scena artistica e culturale italiana. Qui un approfondimento su quel che è riuscito a fare con il pennello.
L’arte è prima di tutto un esercizio spirituale. Una via per giungere all’assoluto, come tanti filosofi hanno provato a teorizzare. Eppure, non di rado, essa si manifesta con maggiore intensità quando si presenta spontanea, priva di costrutti, libera di essere al di fuori di un sistema che la inquadri o legittimi. Semplicemente è, semplicemente ne godiamo. Se intesa quindi come una delle (poche) vie utili alla conoscenza di sé, non ci deve sorprendere che Franco Battiato l’abbia percorsa.
«L’obiettivo ultimo della mia vita è conoscere me stesso» gli ho sentito spesso ripetere nelle varie interviste circolate in seguito alla sua morte. É sulle basi di un dialogo – prima sofferto, poi molto sereno – con la propria individualità che il poliedrico artista ha intrapreso un cammino di ricerca pennello in mano.
Aveva iniziato a dipingere nel ’93, non senza incontrare difficoltà:
«Ho iniziato a dipingere vent’anni or sono, spinto dalla mia incapacità» amava ripetere. Forse un mantra utile a ricordare che l’arte è tecnica, esercizio che si accompagna all’ispirazione. E il nodo per Battiato stava proprio qui. L’immagine, lo slancio del genio, l’intuizione folle, l’artista l’ha sempre avuta. Quel che mancava, a suo parere, era la capacità di metterla in pratica, di riportare sulla tela un’idea che nella sua mente appariva delineata: «qualsiasi cosa diventava una cosa diversa».
Un anno di tanti sforzi e altrettanti delusioni, ma «un bel giorno all’improvviso la figura di un danzatore derviscio si materializzò sulla tela, nel modo giusto, nel modo che volevo. Fu una gioia immensa, anzi di più. Fu un orgasmo cosmico».
Da quel momento, a fasi alterne, Franco Battiato si è dedicato anche alla pittura. Una “terapia riabilitativa”, un ulteriore mezzo per migliorarsi artisticamente e personalmente. Le opere figurative prodotte sono circa 80, tra tele e tavole dorate. La miscela, tendenzialmente, ad olio. Süphan Barzani lo pseudonimo con cui firmava i suoi dipinti.
Per intenzione e ispirazione intima Battiato ha riportato sulla tela un sentimento archetipale, intriso di spiritualità e bellezza. Lo si nota in particolar modo nei fondali oro, immediatamente riconducibili al modello dell’arte antica. Nonostante non si possa parlare di volontaria adesione al modello iconografico bizantino, di certo esso riverbera nell’opera pittorica di Battiato nella forma di intima adesione a un pensiero comune. Difatti, al di là di ogni dimensione temporale, il colore oro è simbolo di purezza e ascensione spirituale. Da qui la sua presenza, quasi costante, nelle opere di Battiato.
Altrettanto presenti, nelle sue tele, i volti umani. Ma se con l’oro era possibile ascrivere l’arte di Battiato in un’orbita astratta e concettuale, attraverso i volti l’artista si è voluto riconnettere, in qualche modo, alla dimensione terrena. La maggior parte delle fisionomie ritratte, difatti, appartengono a persone vere.
Un risultato difficile da raggiungere per chi inizialmente non era in grado di riprodurre, a suo dire, nemmeno un bicchiere. Un risultato che restituisce dunque l’estensione dei progressi ottenuti da Battiato, divenuto nel corso degli anni un preciso osservatore – e riproduttore – della realtà. «Poter contare sull’immagine fotografica dei soggetti per me era e rimane fondamentale» aveva specificato in un’intervista, aprendo importanti spiragli sul suo metodo di lavoro.
Osservando le sue opere la sensazione è la stessa che si prova ascoltando le sue canzoni, oppure semplicemente guardando il suo viso scavato, leggero, in qualche modo ultraterreno. La sensazione è quella di immersione immediata in una dimensione sacra, ulteriore, uno squarcio verso qualcosa di altro e profondo. Inoltre, a distribuire le figure e organizzare lo spazio, concorre un senso dell’armonia e del ritmo le cui analogie con la sue applicazioni musicali si sprecherebbero.
Come somma del suo rapporto con la pittura possiamo prendere in considerazione il suo Autoritratto di spalle. Si tratta di un trittico – forma prediletta per le rappresentazioni religiose – dove l’artista si raffigura di spalle. Se non fosse indicato nel titolo probabilmente non ci accorgeremmo che l’uomo raffigurato è proprio lui, che dal suo studio guarda il paesaggio catanese aprirsi oltre la finestra. Nell’opera convivono dunque presenza e assenza, soggetto e alterità, riflessione e desiderio. Estrema coerenza nelle contraddizioni. Come tutta la sua vita, come tutta la sua arte.