Quello del cartellonista per il cinema è un mestiere che sostanzialmente non esiste più, o quantomeno riveste una centralità infinitamente minore rispetto ad alcune decadi fa. Questo fatto appare ancora più evidente a seguito della pandemia che ci ha recentemente colpito e che nel settore cinematografico ha avuto l’effetto di spostare l’ “equilibrio”, precario già in partenza, dalla sala cinematografica al divano di casa, riducendo così il percorso decisionale dello spettatore a un lungo girovagare tra i cataloghi delle maggiori piattaforme digitali.
Così non era in passato, quando il principale mezzo per catturare l’attenzione del pubblico, e quindi portalo in sala, erano proprio i manifesti affissi per strada o nelle immediate vicinanze dei cinema. Tra i più importanti rappresentanti- se non il più importante – di questo mestiere (che può certamente essere definito un’arte) c’è Renato Casaro. Nato a Treviso nel 1935– lì il suo incontro con il cinema, dipingendo sagomati per i Cinema Garibaldi e l’Esperia – e trasferitosi a Roma non ancora ventenne, quando la Capitale era teatro di alcune fra le più importanti produzioni cinematografiche internazionali, seguì una carriera che l’avrebbe portato in giro per l’Europa e in America, e gli avrebbe fatto conoscere personalmente molte di quelle che oggi consideriamo le icone del cinema mondiale, da Dario Argento ad Arnold Schwarzenegger, da François Truffaut a Sylvester Stallone, da Francis Ford Coppola a Luc Besson, da Mario Monicelli a Carlo Verdone.
Treviso dedica oggi al Maestro la mostra “Renato Casaro. L’ultimo cartellonista del cinema. Treviso, Roma, Hollywood” (dal 13 giugno fino al 31 dicembre).Allestita in tre diverse sedi -due presso il Museo Nazionale Collezione Salce (Complesso di San Gaetano e la restaurata Chiesa di Santa Margherita, che per l’occasione si aggiunge come seconda nuova sede del Museo) e una presso i Musei Civici Santa Caterina – l’esposizione è curata da Roberto Festi e Eugenio Manzato, con la collaborazione di Maurizio Baroni, e vede rappresentati 170 dei più di 1000 film illustrati da Casaro nella sua carriera, con 300 pezzi provenienti in parte dall’archivio dell’artista e in parte da importanti collezioni pubbliche e private.
Renato Casaro ci accompagna nella visita della sezione della mostra ospitata negli spazi dei Musei Civici Santa Caterina e risponde ad alcune nostre domande.
Come inizia la mostra in questa sede?
RC: Comincia cronologicamente, a partire dai primi anni della mia carriera. In questa prima sala ci sono i lavori che ho realizzato quando ancora vivevo a Treviso, avevo 18 anni. Si tratta di lavori pubblicitari, per la vendita di vini locali, della lana, di stufe. Già in questi lavori si può notare il senso della composizione che appresi da autodidatta e che avrebbe caratterizzato molti miei lavori successivi.
Come è avvenuto il suo incontro con il cinema?
Il cinema è sempre stato la mia passione. Quando la sera finivo di lavorare in tipografia e uscivo, mi capitava spesso di imbattermi nei cartelloni esposti fuori dai cinema, che per me rappresentarono un’attrazione fatale.
Decisi quindi di provare a cimentarmi privatamente nella realizzazione di lavori che avessero a che fare con il cinema. Mostrai i risultati ai gestori del cinema Garibaldi di Treviso che mi presero a lavorare con loro, facendomi fare i sagomati che pubblicizzavano i film prossimamente in uscita da loro.
Ad un certo punto la stessa casa di produzione dei film che arrivavano da noi, la Lux Film, venne a conoscenza del mio lavoro e, riconoscendo in me delle potenzialità, mi chiamò a Roma.
Erano gli anni ‘50…
Esatto, e dopo poco entrai a far parte dello Studio Favalli (il cui titolare, Augusto Favalli, era allora direttore pubblicitario della Lux), che all’epoca era una vera e propria fucina del manifesto, frequentato dai migliori illustratori dell’epoca. Lì impari tutti i segreti del mestiere.
Ero ancora solito firmarmi con il diminutivo Renée, così come usava chiamarmi affettuosamente mia madre, che era francofila. Finché un giorno un cliente mi fece notare che assomigliava al nome di un coiffeur, convincendomi a usare il mio vero nome.
Qual era il processo creativo dei suoi lavori? Si ispirava a fotografie dei set cinematografici?
Sì, la fotografia di scena è sempre stata per me l’ispirazione primaria, insieme alla lettura del copione dei film. Fu solo nella fase più avanzata della mia carriera che iniziai a visitare i set di persona, stando dietro la macchina da presa.
Questo primo periodo della mia carriera è caratterizzato da una moltitudine di film sull’antica Roma e sull’antico Egitto, con personaggi come Maciste, Nefertiti, Ponzio Pilato, Annibale…se ne facevano a bizzeffe, e questo si rifletteva sulla necessità di velocizzare l’esecuzione dei manifesti e sullo stile impressionista, a tratti rapidi. Il lavoro proprio non mancava. Sono composizioni molto descrittive, che riuscivano a raccontare in una singola immagine quasi tutto ciò a cui lo spettatore avrebbe assistito se avesse comprato il biglietto dello spettacolo.
Erano tutte pellicole che venivano realizzare in Italia?
Assolutamente sì. Si trattava di produzioni internazionali che realizzavano i loro film in Italia per sfruttare il basso costo dei bravissimi tecnici italiani e i bellissimi ambienti di cui il nostro Paese è naturalmente dotato.
Cosa pensa dell’avvento del cinema in streaming, fruibile da casa, a discapito della sala cinematografica? Come è cambiato il ruolo del manifesto in questo senso?
Che è un peccato, e che il manifesto non ha più la centralità che possedeva quando lavoravo io. All’epoca era l’unico strumento per comunicare al pubblico l’uscita in sala di un film e i suoi punti di forza.
Con che tecnica era solito lavorare?
Per molto tempo, esclusivamente a tempera. In mostra, a fianco dei molti manifesti stampati, si possono osservare gli originali, fondamentali, a mio modo di vedere, per apprezzare appieno il grande lavoro artigianale che c’è dietro ogni mia creazione.
Tra i registi per cui ha lavorato, ce n’è qualcuno con cui ha condiviso un legame particolarmente stretto, personale?
Ce ne sono tanti, tra di loro Sergio Leone, Bernardo Bertolucci, Giuseppe Tornatore, Francesco Rosi, Dario Argento,RainerWernerFassbinder…con Leone ero davvero in sintonia perfetta, purtroppo venne a mancare all’apice della sua carriera. L’unico che mi manca veramente è Fellini!
E tra gli attori…?
Adriano Celentano, Alberto Sordi…Ho anche lavorato in quasi tutti i film di Terence Hill.
E proprio basandosi sui suoi molti lavori per i film western all’italiana di quegli anni, Quentin Tarantino le ha chiesto di produrre un manifesto da inserire nel suo ultimo film “C’era una volta a…Hollywood”…
Certo, lui è un grande collezionista di manifesti italiani. In quel caso mi ha chiesto espressamente di realizzare un manifesto adottando lo stile che si usava in quel periodo, gli anni ‘70.
In molti suoi lavori si possono riscontrare elementi che anticipano di 50 anni le possibilità offerte oggi da software come Photoshop. Parlo del collage fotografico, del lavoro sul lettering…
Elementi come il lettering, che oggi puoi trovare dappertutto, di ogni tipo e pronto all’uso, richiedeva ai miei tempi grandi sforzi, poiché richiedeva un intensissimo lavoro manuale. Il titolo aveva una valenza a volte uguale, o addirittura superiore, al resto del manifesto e per questo richiedeva impegno, mentre oggi la sua elaborazione viene spesso data per scontata, come per molti altri aspetti della grafica digitale.
Pensa ci sia stata un’evoluzione nella composizione dei suoi manifesti? Nei suoi lavori più tardi si può forse notare una maggiore essenzialità rispetto ai primi lavori, invece più descrittivi?
Sicuramente, per esempio, questo manifesto per “Il prefetto di ferro” non punta più a raccontarti esattamente gli avvenimenti del film, anzi, non dice nulla o quasi. C’è solo quest’uomo immerso in un’atmosfera torrida che imbraccia un fucile…non sai cosa farà, e questo forse stimola la curiosità del pubblico ancora di più. Prendi anche “La mazzetta”, in cui il produttore si era prodigato per assicurarsi attori del calibro di Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Paolo Stoppa, e si è ritrovato un manifesto in cui i volti degli attori erano nascosti…non è stato per nulla facile convincerlo!
C’è qualche set tra quelli che ha visitato che le è rimasto particolarmente impresso?
Ce ne sono tanti…per questo manifesto, per esempio, che ho fatto per Conan, il primo interpretato da Schwarzenegger [Conan il Barbaro, n.d.r], sono andato sul set, che era in Almeria, Spagna, per studiare la location, conoscere lui…all’epoca non era ancora la celebrità mondiale che poi sarebbe diventato!
Sperimentò altre tecniche oltre alla tempera?
Sì, in un secondo momento della mia carriera cominciai a impiegare l’aerografo [apparecchio usato nella pittura e nella grafica per spargere inchiostri, n.d.r]. Per esempio “Acqua e sapone” è realizzato quasi tutto con l’aerografo. Fu quasi una rivoluzione per me che ero partito da un stile fortemente impressionista…Verdone, con cui ho collaborato spesso, per questo lavoro impazzisce ancora oggi. La base veniva comunque realizzata a tempera, poi con l’aerografo creavo tutta una serie di sfumature che arricchivano moltissimo il risultato finale… ecco, questo [manifesto, n.d.r] di “Asterix e Obelix contro Cesare”, con Benigni, è l’ultimo manifesto che ho fatto in ordine di tempo, in questo caso per l’estero, nel 2000.
Se dovesse racchiudere la sua carriera in una frase, quale sarebbe?
… che ho dipinto sogni!