Matteo Piccaia nacque nel 1923 in provincia di Venezia. Si interessò al disegno e alla pittura sin dalla giovane età. L’8 settembre 1943, giovane bersagliere e con l’esercito allo sbando, raggiunse da Faenza (con mezzi di fortuna e la tavolozza e i colori in mano) i genitori a Domodossola, i quali lo salvarono più di una volta dalle retate dei nazi-fascisti.
Dopo la seconda guerra mondiale visse per vent’anni tra Francia e Svizzera, entrando in contatto con gli ambienti artistici d’avanguardia. Iniziò giovanissimo a dipingere (nella foto Tetti di Domodossola, 1940, olio su tavola). Fu definito da Dino Buzzati “neo-figurativo emblematico” (Corsera 1971). Ritornato in Italia alla metà degli anni sessanta, scelse la provincia di Varese per vivere e continuare il suo lavoro artistico.
Sue opere sono oggi conservate in varie collezioni private e musei.
Il 19 ottobre 2021 si è spento all’ospedale di Busto Arsizio.
Ecco l’allocuzione funebre del figlio Giorgio.
Lieve e con un sorriso negli occhi e le dita lunghe e affusolate mi hai salutato per l’ultima volta. I tuoi insegnamenti rimarranno sempre in me.
Papi cos’è l’arte? È il riflesso che muove la Totalità.
La Totalità è la nostra arte ed è il nostro rapporto tra padre e figlio.
Le nostre chiacchierate erano settimanali e partivano da un suo pensiero, da un suo aforisma.
“Che colpa è la mia se mi sento artista, lasciatemi sognare.
E scusate tanto se la mia illusione ha distolto i vostri sogni”.
E io “più che “vostri sogni” dalle vostre attività”.
E lui, “Matteo, anche quelle sono sempre sogni”.
E via così rincorrendoci nei nostri ragionamenti a volte surreali ma mai banali.
Un giorno ho citato Emanuele Kant “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, e il maestro prontamente “polenta e baccalà”. Sapeva essere ironico anche con l’amore della sapienza. E via discutendo di morale, astronomia e spiritualità.
I suoi discorsi sono sempre stati lucidi, anche recentemente.
“Quello che deve essere messo sulla tela è l’occhio che lo decide, le parole nulla sanno circa la qualità delle esattezze guidate dall’occhio”.
“È l’infallibilità dell’occhio che precisa la diversità degli oggetti, e non la mente che organizza come deformarli”. E io “occhio per occhio” e lui “ dente per dente”.
Liberi con il pensiero e con la parola, nella nostra arte.
A volte guardavamo suoi e miei disegni capovolgendoli o guardandoli allo specchio cercando errori o imperfezioni “Dipingere è come tentare un racconto e per raccontare serve una grammatica superlativa”.
E “Più sposti gli oggetti verso gli angoli, maggiormente sulla tela aumenta il disagio”.
E io “il disagio genera riflessione” e lui “gli oggetti possono cadere dalla tela”.
Il nostro è stato e rimarrà per sempre un rapporto d’amore, un intenso amore tra padre e figlio nell’arte.