Sono molti gli articoli sensazionalistici riguardanti le lunghe file che si creano per le esposizioni su Banksy, identiche, itineranti, spesso non autorizzate, che alimentano il fenomeno che Montanari chiama “mostrismo” e le casse delle aziende che organizzano mostre blockbuster. Il pubblico, spinto dal richiamo del fenomeno commerciale, è disposto a pagare un biglietto per entrare in un luogo istituzionale, pieno di serializzate e standardizzate serigrafie, quando potrebbe visitare gratuitamente una strada piena di vivi e autentici lavori di Street Art.
Banksy è il miglior prodotto a poter entrare all’interno di queste logiche di mercato, soprattutto perché si presenta come una sorta di pasoliniano “artista corsaro”, che combatte il sistema utilizzando i mezzi che il sistema stesso gli mette a disposizione, accettandone i compromessi e cadendo, talvolta, in contraddizione.
Seppur Banksy sia il più famoso, non è certo l’unico esponente di questa corrente artistica, tantomeno il suo portavoce. Infatti, sono molti i colleghi che lo criticano: Nemo’s lo considera un “fenomeno commerciale […] risucchiato da unna morsa dalla quale è difficile uscire”[1], mentre il Collettivo Guerrilla Spam è contro quella “genericità che mette tutti d’accordo”[2] delle sue opere, che somigliano troppo ai messaggi pubblicitari.
Gli spettatori, catturati dalla facile mercificazione dei messaggi dello streetartist di Bristol, dovrebbero imparare a considerare l’Arte di Strada come un movimento costituito di opere site-specific, che si arricchiscono di significato grazie al contesto per cui sono state create.
Inoltre, e soprattutto, i curatori dovrebbero portare rispetto per gli streetartists che rimangono coerenti alla subcultura Hip Hop dalla quale proviene il writing, che nasce e si sviluppa come un’arte dai “caratteri paratribali”[3], fondata sui concetti di appartenenza e condivisione.
A quanto pare, però, questo rispetto è venuto a mancare: Gonzalo Borondo, infatti, qualche giorno fa,ha deciso di coprire una sua opera in mostra a Torino (“Street Art in Blu, 3”), lamentando il fatto che questa fosse stata esportata senza permesso dal muro per il quale era stata pensata. Il gesto è del tutto paragonabile a quello che era stato compiuto da Blu, nel 2016, a Bologna, dove tutte le sue opere sono state coperte per protestare allo stacco, e alla conseguente esposizione per la mostra “Street Art & co. L’arte allo stato urbano”, di quattro sue opere.
In quest’ultimo caso, era stata garantita la fruizione gratuita, visto che i suoi lavori si trovavano (e si trovano ancora, all’interno di Palazzo Pepoli, sempre a Bologna) in una parte visitabile senza il pagamento del biglietto. Ma l’artista non ha ritenuto sufficiente che si mantenesse solamente una delle caratteristiche della Street Art, la gratuità. La decontestualizzazione, per questo tipo di arte, non può e non deve avvenire.
Nel caso della mostra torinese (la quale “ospita”, loro malgrado, anche opere di Blu), la situazione è ancora più grave, visto che si richiede anche il pagamento di un biglietto. Ma anche per Borondo, come spiega chiaramente nelle sue stories Instagram, il danno maggiore è quello della perdita del contesto, senza il quale gli interventi degli streetartistsnon hanno alcun significato.
L’opera di Street Art potrà sopravvivere fino a quando il contesto è adatto per mantenerla. Con questa lettura, anche la distruzione del lavorofarà aumentare il senso dell’opera d’arte, che produrrà nuovi valori e stimolerà ancor di più il fruitore: riflettere sulla scomparsa di certi muralespotrebbe far riflettere sui motivi per cui una città non è più capace di ospitarli e mantenerli in vita. Questi si fanno spesso portatori di messaggi anticapitalisti e, per questo, decorano i quartieri popolari e marginalizzati, ma vivi grazie al contesto non omologato e omologante del resto della città. Quando anche questi quartieri si standardizzano, fagocitati dalla massiccia gentrificazione, anche il messaggio di cui l’opera si faceva portatrice verrà inglobato, scomparendo.
Non è un caso che la Street Art sia stata paragonata anche alle performance, immateriali, uniche ed irripetibili:
“«Salvare» un murale per trasportarlo su altri supporti o in altri luoghi è una chiara violazione dello spirito performativo della Street Art che usa spray e stencil come un body artist usa mani e piedi o come un environmentalartist usa rami e foglie: congelare la Street Art nelle Sali museali equivarrebbe alla pretesa assurda che una performance duri per sempre o che una scultura di ghiaccio non si sciolga mai”[4].
Alcuni artisti, quindi, non vogliono scendere a compromessi, e bisogna accettarlo. Inutile scandalizzarsi. Di nuovo.
[1]Sporcare i muri. Graffiti, decoro, proprietà privata, 2018, p. 73.
[2]Ivi, p. 80.
[3] A. RIVA, Street art sweet art. Dalla cultura hip hop alla generazione pop up, 2007, p. 36.
[4] F. IANNELLI, Street Art e museo: museofobia o museofilia?, 2017.