La mostra a Palazzo Braschi di Roma, aperta fino al 27 marzo, è stata realizzata in collaborazione con il Belvedere Museum di Vienna e la Klimt Foundation.
L’oro, l’eros, le donne, la morte. Gli elementi imprescindibili dell’estetica della Finis Austriae dominano la mostra Klimt. La Secessione e l’Italia. L’artista austriaco proprio a Roma, 110 anni fa, dopo aver partecipato con una sala personale alla Biennale di Venezia del 1910, fu premiato all’Esposizione Internazionale dʼArte del 1911.
La parola chiave della retrospettiva è influssi: quelli che plasmarono le opere del viennese e quelli offerti ai tanti che si lasciarono ispirare da lui.
200 opere – tra dipinti, disegni, manifesti d’epoca e sculture – rappresentano un insieme di capolavori realizzati da Klimt e dagli artisti della sua cerchia o a lui assimilabili, tra cui il fratello Ernst e Franz Matsch.
È un racconto visivo della Secessione di Vienna che voleva adeguare l’arte agli stili di vita dell’epoca. Anelava, cioè, a quella modernità che doveva incontrare le necessità del presente. Un intento che non fu però semplice da raggiungere, come dimostra la storia del primo manifesto secessionista.
Klimt vi raffigurò Teseo nudo e impegnato a combattere il Minotauro, ma le autorità imposero una censura, decretando che i genitali dell’eroe dovessero essere nascosti da un tronco d’albero. E così fu. (ndr in mostra ci sono i due manifesti).
L’arte nuova e totale
Gli artisti della Secessione si opposero ai paradigmi artistici dell’epoca, desiderosi soprattutto di valicare i confini accademici e proporre un’arte nuova. Una contrapposizione che ognuno interpretò a modo suo, come dimostrano le differenze stilistiche interne. C’è chi era più improntato allo studio della realtà (ne è un esempio Vlastimil Hofman con la sua Madonna) e chi era più orientato all’Art Nouveau.
Il cielo di Vienna era sotto l’influsso del Gesamtkunstwerk, l’utopia estetizzante, l’aspirazione all’opera d’arte totale, all’unione di tutte le arti e della vita. Non a caso un punto fermo del movimento fu lo stretto legame tra le belle arti, l’architettura e il design. Facevano parte del gruppo importanti architetti, designer innovativi e scenografi, come Otto Wagner, Josef Hoffmann, Joseph Maria Olbrich, Koloman Moser e Alfred Roller.
Quest’aspirazione all’unità si traduce in un’arte complessa capace di aggregare stimoli diversi con armonia. Se l’uso dell’oro non è che un’eredità paterna (Ernst senior era orafo) possiamo rintracciare i mosaici ravennati e le decorazioni vetrarie veneziane in molte delle opere di Klimt.
Il suo influsso, invece, lo rintracciamo nei secessionisti come in altri artisti, come dimostra il capolavoro di Casorati La preghiera.
L’eros e l’oro
Molti dei quadri in mostra sono dei paesaggi, un tema caro all’artista ma per cui è molto meno noto. I ritratti femminili, per cui è invece celebre, mostrano tutta la gloria della sua estetica.
La testa lievemente all’indietro, gli occhi e le labbra socchiusi, Giuditta in un tripudio di oro, è eros e thanathos. Lo sguardo che rivolge allo spettatore è un trionfo d’estasi e voluttà. Il pittore si ispirò infatti alla versione del mito di Judith in cui l’eroina giace con Oloferne prima di ucciderlo.
Giuditta I resta un’opera iconica in grado di rappresentare una delle ossessioni di Klimt, la pericolosa femme fatale. Per la prima volta in Italia anche l’ultimo e incompiuto, La sposa, che realizzò ispirandosi a una novella di Schnitzler. Onirico e erotico risponde perfettamente ai dettami dell’estetica klimtiana.
Misteri e ricostruzioni
Presente in mostra anche il Ritratto di signora misteriosamente scomparso nel 1997 alla Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddio e rinvenuto in una parete esterna del museo piacentino nel 2019.
In una delle sale più grandi, accompagnato dalla Nona sinfonia, è stato riprodotto invece Il fregio di Beethoven che rappresenta l’aspirazione alla felicità in un mondo sofferente in cui si lotta non solo contro le forze ostili esterne, ma anche con le debolezze interiori.
Tre dipinti, grazie a Google Arts & Culture Lab Team, tornano in vita attraverso la ricostruzione digitale. Sono i Quadri delle Facoltà – La Medicina, La Giurisprudenza e La Filosofia – , una maestosa allegoria ideata per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna che al tempo rifiutò i lavori commissionati ritenendoli troppo scandalosi.