Pioniere nell’uso del titanio, Wallace Chan è in mostra al Fondaco Marcello di Venezia. TOTEM, questo il titolo della mostra, unisce la sapienza artigianale dell’artista alla sua profonda spiritualità. Dal 20 aprile al 23 ottobre 2022.
Mentre a pochi passi i canali di Venezia ondeggiano leggeri, all’interno del Fondaco Marcello si cela uno spazio in penombra mosso da una melodia dolce ma insistente. É la stanza dove la scultura in titanio di Wallace Chan – A Dialogue Between Materials and Time, Titans XIV – risiede scomposta in diversi pezzi che occupano l’intera superficie della stanza.
Originariamente alta 10 metri, l’opera simboleggia la frammentazione sociale e l’incertezza oggi sperimentate nel mondo, riconducibili a questioni di interesse globale legate all’avvento di politiche estremistiche e agli effetti del cambiamento climatico.
A questo Chan risponde con la sua arte, il cui messaggio è racchiuso nel titolo della mostra: TOTEM. Un simbolo ancestrale che abbina gli aspetti filosofici della fede buddista dell’artista e la sua connessione con gli elementi naturali con le innate proprietà dei materiali che egli utilizza nella sua opera scultorea.
Wallace Chan a 16 anni diventa apprendista intagliatore e lavora con le pietre opache (come la malachite, la giada e il corallo) ispirandosi ai simboli cinesi di buon auspicio. Sviluppa poi le sue capacità e apprende l’arte della scultura occidentale, ammirando le statue in marmo d’ispirazione religiosa. All’inizio degli anni 2000 diventa monaco e, avendo rinunciato ad ogni suo bene, Chan trova sé stesso nella pratica artistica.
Il titolo della mostra è Totem. Cosa significa esattamente?
I miei primi ricordi legati ai totem risalgono al 1973, quando ho iniziato a intagliare. Mi piaceva realizzare quei totem tipici dei templi cinesi, dove compaiono figure di draghi, leoni o fenici. Questi oggetti vengono posizionati all’interno del tempio, in modo che le persone possano utilizzarli per mettersi in contatto con Dio e la natura. I totem sono viatico per qualcosa di ulteriore. Diventano inoltre anche simboli di protezione, proprio in virtù della loro connessione con poteri più grandi dell’uomo. Vedendo un elefante raffigurato, per esempio, è possibile che egli ti trasmetta la sua forza.
Al centro della mostra, una sola grande opera.
A Dialogue Between Materials and Time, Titans XIV è la più grande scultura che abbia realizzato in titanio. Il dialogo si istaura proprio tra il titanio e il ferro. Il tempo li pone a confronto, dal momento che il ferro si consumerà prima del titanio, che invece è destinato a durare.
Questo pone una questione centrale nelle nostre esistenze: il tempo esiste realmente o è un’invenzione? Ci accorgiamo del suo scorrere solo indirettamente, per gli effetti che ha su quel che ci circonda. Misurare il suo agire su ferro e titanio restituisce l’impatto della sua intangibile essenza.
Perché ha scelto proprio il titanio per questo confronto?
Ho scoperto il titanio mentre ero alla ricerca di un metallo adatto agli orecchini che stavo realizzando. Il fulcro del gioiello dovevano essere due diamanti; a sorreggerli avevo costruito una struttura in oro, ma è risultata troppo pesante.
Per anni non ho trovato una soluzione, fino a che un giorno, su un giornale, non ho letto di un del pacemaker – ha letto il dispositivo medico per persone con malattie cardiache – e del materiale con cui è realizzato: il titanio.
É molto leggero, eco-friendly e può anche essere molto colorato. D’altra parte risulta molto resistente e dura a lungo. Da quel momento ho iniziato a sperimentare con il materiale. All’inizio l’ho utilizzato per i gioielli, poi, proprio come gli esseri umani, il metallo è cresciuto. Sono nate così le sculture su grande scala.
Mi piace pensare che queste opere – in grado, grazie al titanio, di sopravvivere su questo mondo molto più di me – porteranno qualcosa di me nel futuro.
Che ruolo ha la spiritualità nella tua pratica?
Probabilmente come esseri umani siamo l’unica specie che ricerca consapevolmente una crescita spirituale, una pratica che gli consenta di migliorarsi interiormente. Ma d’altra parte credo che ogni cosa abbia un’anima, da una tazza a un fiore. Tutti i materiali hanno uno spirito, che risponde se sollecitato con la giusta sensibilità.
Quindi si tratta di cercare di amare tutto, in modo che tutto ti risponda con amore. Una pratica che è anche ispirazione. L’arte è il veicolo tramite cui esprimo il mio sentimento.
L’opera in mostra, in precedenza, era un unico corpo. Qui invece la vediamo separata in molti pezzi. Rimane la stessa opera di prima o è da considerarsi un’opera nuova?
Solitamente se hai una scultura ti limiti a guardarla da lontano o a camminarci intorno. In questo caso l’opera – che assemblata è alta circa 10 metri – è invece distribuita su tutta la superficie. Entrare in mostra significa quindi, letteralmente, attraversare il corpo della struttura. Gli spettatori così facendo diventano parte dell’opera stessa. Girandoci attorno diventano quasi il sangue della struttura scomposta, che le circola intorno e poi ne fuoriesce. Non c’è un percorso definito e ognuno può scegliere la sua via all’interno della scultura.
Per me è la stessa opera di prima, ma sicuramente il modo di viverla è differente. La musica, l’illuminazione, l’atmosfera. Inoltre, insieme al curatore James Putnam, abbiamo pensato che disassemblare l’opera potesse richiamare l’idea di incertezza che questi ultimi due anni ci hanno trasmesso. Tutti abbiamo l’istinto di riparare quel che è danneggiato, forse questa mostra vuole fare capire che tutti abbiamo il potere di farlo.
É questo il significato ultimo della mostra?
Credo di sì, credo sia la capacità umana di riparare. Anche se a volte non sembra possibile, c’è sempre la possibilità di farlo. Come il nostro corpo, che miracolosamente riesce a rimarginarsi da solo.
Forse quando il mondo sarà tornato in sé rimetterò insieme l’opera, tornerà ad essere alta dieci metri. Un simbolo di rinascita. Una speranza per tutti. Ogni cosa può essere riparata, dobbiamo solo credere in noi stessi.