Dal 29 aprile al 12 giugno a Reggio Emilia si rinnova l’appuntamento con Fotografia Europea, Festival di fotografia di portata internazionale promosso e prodotto da Fondazione Palazzo Magnani insieme al Comune e con il contributo della Regione Emilia-Romagna.
La 17/a edizione è intitolata Un’invincibile estate, frase di Albert Camus che rappresenta la meraviglia che il poeta sperimenta quando scopre in sé la speranza, un sentimento che si erge a guida delle forze interiori e che si sprigiona nel continuo rinnovarsi della vita.
La manifestazione si articola in diverse sedi all’interno del comune di Reggio Emilia, ovvero nei Chiostri di San Pietro, a Palazzo da Mosto, in Galleria Santa Maria, nel Teatro Ariosto, a Palazzo dei Musei, nei Chiostri di San Domenico, a Spazio Gerra, nella Biblioteca Panizzi e alla collezione Maramotti.
La direzione artistica del Festival, composta da Tim Clark e Walter Guadagnini, ha selezionato una varietà di immagini, storie e racconti che dipingono le sfaccettate contraddizioni della realtà. Dagli intrecci di tradizioni e credenze di altre culture ai ritratti più intimi e perfino spudorati che rivelano una nuova percezione della femminilità.
I Chiostri di San Pietro, un complesso monumentale cinquecentesco che è un vero tesoro di arte, storia e bellezza nel cuore di Reggio Emilia ospita dieci delle mostre presentate in questa nuova edizione.
Nicola Lo Calzo apre la manifestazione al primo piano dei chiostri con l’esposizione Binidittu, nella quale analizza il rapporto tra colonialismo e identità culturale contemporanea attraverso la storia di San Benedetto il Moro, il primo santo nero della storia moderna. L’intera sala è intervallata da drappi di grandi dimensioni nei quali sono stampate le fotografie. La scena ricorda il film Maria regina di Scozia, quando le due regine nel loro ultimo colloquio si cercano e rifuggono a vicenda tra queste grandi tele che le separano. Anche in questo caso ogni fotografia si mostra per poi celarsi all’improvviso, producendo nello spettatore un forte senso di spiritualità e ponendo l’accento sull’invisibilità di Benedetto stesso, che fu un’icona di riscatto ed emancipazione a livello mondiale, per poi essere progressivamente rimosso dall’immaginario collettivo.
Un altro lavoro di profonda sensibilità e suggestione è quello di Mary Ellen Mark, The lives of Women, che raccoglie fotografie, film e altro materiale prodotti dall’artista nella seconda metà del 1900 e documenta la varietà e la complessità della vita delle donne in quel periodo. Dagli scatti che immortalano le pazienti del reparto psichiatrico dell’Oregon, alle Missioni di carità di Madre Teresa e alla storia di Tiny, una ragazza che vive per strada a Seattle. Tiny è poi diventata il soggetto di un film nominato all’Oscar, Streetwise, così come di un secondo film, Tiny, e di due libri, che ripercorrono per tre decenni la battaglia di questa giovane donna contro la povertà e la tossicodipendenza, così come il suo ruolo di madre di dieci figli.
Hoda Afshar cattura la bellezza spirituale delle argentee spiagge di sabbia nera dell’Iran. Fotografa il movimento del vento, il suo scontrarsi sulle pareti rocciose delle montagne, l’intrecciarsi di tradizioni e lo svelarsi dei rituali di questi luoghi. Sulle isole dello stretto di Hormuz, al largo della costa meridionale dell’Iran, c’è una credenza comune che i venti possano possedere una persona, portando malattie e disturbi. Le imponenti montagne di sale e le vallate diventano surreale scenografia di uno spettacolo del quale questi venti sono protagonisti.
Carmen Winant, attraverso centinaia di diapositive ritrovate, porta in mostra Fire on World. Queste serie di fotografie raccontano molteplici storie. Cinque proiettori e 400 immagini discrete, storie di sopravvivenza e rivolte femministe tessono insieme molteplici narrazioni di nascita, di allunaggio, l’evolversi di strutture fisiche e sociali. Sono piccoli mondi immersi nel fuoco, insieme eseguono una coreografia che entra ed esce da sé.
La mostra First trip to Bologna 1978/Last trip to Venice 1985 di Seiichi Furuya è un insieme di ritratti intimi e fermo immagini che ricostruiscono la memoria della moglie, fino al momento del suicidio. Sono immagini malinconiche, attraverso le quali l’artista cerca una risposta impossibile. Ne traspare un gioco di forze, l’evoluzione infelice di un equilibrio precario tra gioie e dolori, un viaggio nell’incertezza umana.
La fotografia di Ken Grant è caratterizzata da serie lente e deliberate realizzate nel nord-ovest dell’Inghilterra. Il titolo, preso in prestito da un personaggio del romanzo V di Thomas Pynchon, si riferisce a un uomo in una precaria odissea che lo porta tra la bontà e la profanità. Le immagini sono ritratti di vite precarie, in un’epoca di instabilità. Muovendosi attraverso il Moss, i docklands, le sue tracimazioni e i bordi della città stessa, Benny Profane è un resoconto sostenuto di un’area e di coloro che l’hanno plasmata durante i suoi ultimi anni. Nel 1995, le operazioni a Bidston Moss cessarono e l’ex discarica è ora parte di una riserva naturale.
Il progetto Temporarily Censored Home di Guanyu consiste in immagini intime dell’artista che riscopre attraverso di esse la sua identità sessuale e che rivendicano la sua casa di Pechino come uno spazio “queer” di libertà e protesta. Questi ritratti sono anche un’indagine nel rapporto tra personale e politico all’interno di sistemi oppressivi come quello della Cina e degli Stati Uniti.
La fotografa francese Chloé Jafé con l’opera I give you my life esplora il mondo chiuso e all’apparenza inavvicinabile della mafia giapponese, la Yakuza. L’artista nel 2013 si trasferisce a Tokyo e grazie ad un incontro fortuito riesce ad immergersi in questo mondo ostile e ricco di rituali e storie affascinanti, catturate con profonda sensibilità e sensualità dalla Jafè. Ne scaturisce un quadro della vita quotidiana di queste famiglie con un focus sul ruolo delle donne al loro interno, avvolte nel mistero, in bilico tra luce e tenebre. Le fotografie sono arricchite con pennellate e l’utilizzo di colori acrilici, creando una commistione tra pittura e fotografia.
Tutte le immagini di The Book of Veles sono generate dal computer, realizzate grazie all’intelligenza artificiale. La mostra vuole sottolineare il fatto che abitiamo in un mondo dominato dalla disinformazione, queste “fake news” sono prodotte molto spesso dai giovani che ben conoscono la mercificazione dell’informazione, in questo caso il progetto si ispira ai giovani della cittadina macedone Veles, che crearono centinaia di siti “clickbait”, spacciandoli per portali di notizie politiche americane. Grazie a degli algoritmi l’intelligenza artificiale combina immagini vere relative al tema in discussione e crea altre immagini. La stessa cosa accade con i testi, prendendo esempio da veri articoli se ne creano altri. Quando l’artista ha pubblicato il libro ad aprile dell’anno scorso, nessuno si è reso conto che fossero dei falsi. Ha successivamente creato un profilo Instagram fittizio, nel quale ha dichiarato che tutte le immagini erano frutto del computer.
Il progetto Talashi di Alexis Cordesse consiste in una serie di fotografie personali sui migranti siriani incontrati dall’artista in Europa o in Turchia. Talashi in arabo significa Frammentazione, Erosione o Scomparsa. La vita di queste persone viene trasposta in modo intimo, la semplice bellezza della quotidianità e la ricerca di un equilibrio all’interno della precarietà dell’esistenza sono tradotti con inusuale eleganza, cogliendo tutta la vitalità e la gioia racchiuse nelle avventure di ogni giorno. Niente appare stereotipato, sembra che queste immagini sussurrino all’osservatore che non è necessario vivere per sempre, è sufficiente vivere.
All’interno di Palazzo da Mosto il progetto Doorway di Jitka Hanzlová sviluppa un’indagine sui giovani che si ritrovano in un momento di passaggio delle loro vite, è un limbo nel quale tutto è ancora da decidere, ma è necessario muoversi e iniziare a prendere delle decisioni. Hanzlová ritrae i ragazzi con un passato migratorio e ne restituisce le speranze e le ambizioni attraverso i loro sguardi.
Presso lo spazio di Galleria Santa Maria sono esposti i tre progetti vincitori dell’Open Call di questa edizione di Fotografia Europea.
Simona Ghizzoni parla del ritorno, l’abbandono di Roma per rifugiarsi nell’Appennino Emiliano, sua terra natale. Il progetto che narra il passaggio dal caos metropolitano a Reggio Emilia si intitola Isola e sottolinea l’importanza delle proprie radici e il riavvicinamento con una parte di sé stessi.
Usus Fructus Abusus, ovvero i concetti del diritto romano, un progetto della spagnola fotografa e cineasta Gloria Oyarzabal che indaga i processi di colononizzazione, decolonizzazione e neocolonizzazione dell’Africa e il loro impatto sui femminismi africani. Queste immagini riprendono la fascinazione esotica di questo continente sull’occidente e sviluppano un’indagine sul mondo femminile africano.
Maxime Richè espone invece Paradise, titolo che prende il nome dalla città californiana che nel 2018 fu distrutta in pochissimo tempo da un incendio. La mostra vuole elogiare l’incredibile capacità di adattamento intrinseche dell’essere umano, la sua volontà di sopravvivere e la sua abilità di rinascere dalle ceneri.
All’interno della Sala Verdi del Teatro Ariosto, Arianna Arcara espone il progetto A view of Peeping Tom’s La Visita. La mostra è una reinterpretazione del lavoro della compagnia di danza “Peeping Tom” e si articola in un site specific La Visita alla Collezione Maramotti e la trilogia Triptych al Teatro Municipale Valli.
A Palazzo dei Musei la mostra In scala diversa di Luigi Ghirri e curata da Ilaria Camioli, Joan Fontcuberta e Matteo Guidi, esplora l’Italia in miniatura di Rimini, nel quale Ghirri approfondisce le tematiche della finzione, la percezione stessa della realtà e presenta un quadro caratteristico di una nazione immersa in paesaggi mozzafiato e ricca di palazzi e monumenti scenografici.
Nei Chiostri di San Domenico Possibile è il tema della IX edizione di Giovane Fotografia Italiana, un progetto a cura di Ilaria Campioli e Daniele De Luigi, dedicato agli artisti visivi under 35 e che si propone di osservare la realtà attraverso l’immaginario collettivo delle gioventù, che mira ad investigarne le molteplici potenzialità.
Nelle sale espositive di Spazio Gerra, la mostra In her rooms di Maria Clara Macrì esplora con delicatezza la nudità femminile. Il nudo marmoreo sembra confondersi con le decorazioni delle camere di queste donne, nelle quali l’energia sprigionata dal corpo trova un palcoscenico che appare come un’estensione del soggetto stesso, disinibito, libero di esprimersi all’interno di uno spazio creato attraverso di lui, che lo racconta e che si racconta sfuggendo la sessualizzazione e oggettivazione di cui è vittima.
La Biblioteca Panizzi ospita Vasco Ascolini con Un’autobiografia per immagini, una collezione di 500 fotografie a stampa che tracciano 40 anni di storia della fotografia italiana e i momenti più importanti per la sua crescita intellettuale e artistica accompagnati da una breve autobiografia.
Un’Invincibile Estate si chiude con Bellum di Carlo Valsecchi, un’esposizione di quarantaquattro fotografie che riflettono sui contrasti tra uomo e natura e i sistemi difensivi da essi generati. Protagoniste indiscusse di queste fotografie sono le montagne del nord-est italiano, le fortificazioni qui costruite durante il primo conflitto mondiale e l’intimo rapporto che l’uomo ha saputo tessere con il suo territorio, riuscendo strategicamente a capirne i punti di forza e appropriandosene. Questi giganti abbracciano silenziosamente i suoi abitanti, che vi hanno trovato un potente alleato, la natura diventa architettura e scenario di un insaziabile amore.