Premio della giuria ex-aequo a Skolimoski e Dhont. Special Prize a Jean-Pierre e Luc Dardennes. Ma Cannes ha bisogno di riforme
Una cosa è certa, è molto più facile vincere la seconda Palma d’Oro a Cannes che la prima. È un po’ come alla Rai: se non hai la matricola aziendale non puoi lavorare e se non hai mai lavorato per l’azienda non puoi avere la matricola. Infatti per entrare in certi circuiti servono indicibili colpi di fortuna. Oppure miracoli. Di varia natura. Un po’ come nell’incipit del Processo di Orson Wells, insomma, in cui un uomo tenta tutta la vita di attraversare una porta, ma il guardiano glielo impedisce finché in punto di morte non gli rivela che quella porta era destinata solo a lui.
I premi
Palme d’Or: “Triangle of Sadness” by Ruben Östlund
Grand Prix: “Close” by Lukas Dhont and “Stars at Noon” by Claire Denis
Special Prize for Cannes’ 75th anniversary: Jean-Pierre and Luc Dardennes, “Tori and Lokita”
Jury Prize: “Eo” and “Le Otto Montagne”
Best Actress: Zar Amir Ebrahimi, “Holy Spider”
Best Actor: Song Kang Ho, “Broker”
Best Director: Park Chan-wook, “Decision to Leave”
Best Screenplay: “Boy from Heaven”
Camera d’Or: “War Pony,” directed by Gina Gammell and Riley Keough
Short Film Palme d’Or: “The Water Murmurs”
Circuito chiuso
Con 7 miliardi di persone sulla terra, la Palma d’Oro sembra destinata sempre alla stessa manciata di persone che nel frattempo invecchia, come pure l’audience del Festival di Cannes. Bastava sbirciare ieri sera nell’orchestra del Grand Theatre Lumiere per farsene un’idea. Durante le proiezioni l’età media si aggirava sui sessant’anni a tenersi stretti. Mentre i più giovani erano di estrazione piuttosto eterogenea, poiché ormai ognuno è imprenditore di sé stesso e lo status va in base al numero di like e follower, indipendentemente dal valore del contenuto. Quindi se da una parte ci sono i babbioni centenari incrostati a dei ruoli che non esistono più, con stipendi altrettanto irraggiungibili, dall’altro le nuove generazioni di improvvisatori, a cui basta aver visto una manciata di film e aver scritto tre recensioni e girato due vlog per autoproclamarsi esperti, sono impreparati e lo fanno più per hobby che per lavoro, spesso mercenari in cambio di noccioline.
Loop
Quindi in sintesi: in competizione quest’anno c’erano 21 film. Di questi ben 4 erano di registi che hanno vinto in precedenza l’agognatissima Palma D’Oro: Ruben Oslund (The Square, 2017), Kore-Eda Hirokazu (Shoplifters, 2018), Cristian Mungiu (4 Months, 3 Weeks and 2 Days, 2007) e i fratelli Dardenne che addirittura di Palme d’Oro ne hanno vinte due, Rosetta nel 1999 e L’Enfant nel 2005, senza contare che in 22 anni sono entrati 9 volte in competizione e vinto tre volte il premio della giuria ecumenica, una Palma per la migliore sceneggiatura (Lorna’s Silence, 2007), un Grand Prix (The Kid with a Bike, 2011) e il Premio alla Migliore Regia per Young Ahmed nel 2019. Quest’anno hanno infranto ogni record: per loro è stato inventato un premio su misura extra Palmares, giustificato con l’anniversario della 75ma edizione del Festival. Loro non sono gli unici, anche Ken Loach dal 1990 ad oggi ha vinto due volte la Palma d’Oro e tre volte il Premio della Giuria. Michael Haneke ha conquistato la Palma nel 2009 e ancora nel 2012. Tornando più indietro poi ci sono Bille August, Emir Kusturika, Shohei Imamura, Francis Ford Coppola ed Alf Sjoberg, ma questi ultimi sono nomi che fa impressione anche solo pronunciare.
Palmares
Quest’anno, dunque, sempre nella logica “è più facile il bis” è toccato a Ruben Ostlund tornare in cima al podio. Meno peggio del premio a Park-chan Wook per Decision to Leave, decisamente un film minore nella sua filmografia, anche se il premio è finito nelle mani di Song Kang Ho, che se l’era perso nel 2019 quando Bong-joon Ho vinse con Parasite di cui lui era il protagonista indiscusso. La vittoria di Claire Denis è stata ferocemente criticata. In sala stampa disapprovazione e anche umorismo su una vittoria che quasi all’unanimità è stata giudicata ingiustificata, peraltro ex-aequo con Lucas Dhont che era un po’ la puntata sicura – forse troppo scontata – dell’edizione. Che forse il premio lo meritava solo Dhont e per inserire a tutti i costi una donna hanno dovuto sdoppiare il riconoscimento? Plausibile, ma impossibile accertarsene. Dulcis in fundo è l’altro ex-aequo, il premio per la giuria all’Italiano Otto Montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch che è stato un hype della competizione mettendo d’accordo un po’ tutti ,dalla stampa al pubblico, e quello per Eo di Skolimowski, la vera rivelazione dell’edizione 2022. Una specie di rivisitazione 3.0 di Au Hazard Balthazar di Robert Bresson con echi al Terrence Malick di The Three of Life, molto spessore, eccentricità e originalità: il meglio di quello che può offrire un festival.
Ricambio generazionale
Sono 15 anni che Thierry Fremaux ricopre la carica di Delegato Generale. Forse ci sarebbe bisogno di ricambio, di novità, di nuovi punti di vista, di più giovani. Sicuramente vanno sperimentate nuove strade. La presenza dopo la pandemia è stata massiccia e questo è un segno di salute, di desiderio di cinema, però a questo deve corrispondere anche uno slancio verso il cambiamento che ci impongono i tempi. Quasi tutti d’accordo nella stampa che la scelta di una giuria formata per lo più da attori e guidata pure da un attore, Vincent Lindon, è stata discutibile. Se è vero che è giunta la fine dell’era in cui un critico decretava il successo o il fallimento di un film, adesso siamo all’estremo opposto. Per evitare stroncature, le proiezioni di gala col pubblico si fanno prima delle anticipate stampa, che invece iniziano alle 22.30 e finiscono spesso molto oltre la mezzanotte, con non poche difficoltà e deficit d’attenzione considerato non solo l’orario, ma il fatto che la mattina alle 8:00 ci sono altre attività da espletare.
Riforme necessarie
Questa edizione servirà a tutti per riflettere. In primo luogo non basta nominare media partner Tik Tok per rinnovarsi se non si cambia mind-set. In secondo luogo bisognerebbe rivedere la questione della lunghezza dei film in line-up. Ovviamente un film non si può paragonare ai 13 secondi di una storia Instagram, ma neppure si può ignorare l’avvento di un nuovo tipo di comunicazione. Dunque ci sarebbe da valutare la reale necessità di durata di un film e avere il coraggio di tagliare il superfluo quando si può e quest’anno si poteva in molti casi. Nessuno è più abituato a queste lunghezze, nelle sale gli spettatori, gli appassionati, dormivano, quindi cosa ci si aspetta dal pubblico medio? E poi siamo sicuri che un’ora e trenta non sia sufficiente per raccontare una storia? Jerzy Skolimowski a 84 anni c’è riuscito, in maniera brillante. Eo è un film straordinario. E nonostante sia quasi privo di dialoghi mantiene incollati allo schermo dalla prima inquadratura fino ai titoli di coda. Nell’eccessiva lunghezza c’è la presunzione dei registi e anche un abuso sullo spettatore quando non è necessaria.
Struttura e sezioni
Va poi ripensata la struttura delle sezioni, perché quest’anno Cannes Premiere e Out of Competition hanno ucciso Un certain Regard, la Quinzaine des Realisateurs e la Semaine de La Critique: basta dare un’occhiata ai vari panel sulle testate di settore. Oggettivamente impossibile coprire tutto, per una questione strettamente matematca: il tempo. E siccome tutti devono coprire almeno i film più importanti del concorso e nessuna testata è disposta a pagare per i film nelle sezioni collaterali a meno che non ci siano le seguenti condizioni: un nome importante, un attore importante, un tema d’attualità, tantissimi registi arrivano coi loro film a Cannes pieni di speranze ma non ricevono l’attenzione dovuta e meritata.
I giornalisti
Infine mentre i salari per i giornalisti interni in dieci anni si sono dimezzati (ma almeno a loro la trasferta è coperta dalla testata) e i freelance vengono remunerati con una cifra media che si aggira attorno ai cento euro al pezzo quando si ha fortuna, i prezzi per vitto e alloggio a Cannes sono triplicati, rendendo la copertura di un festival proibitiva anche ai più volenterosi.
Le sfide
Alla luce di tutto questo sarebbe auspicabile se non necessaria una riforma gestionale che prevedesse: limiti al numero di premi per singolo regista così da permettere l’accesso a nuovi nomi e favorire il fisiologico ricambio generazionale, rivedere gli orari delle proiezioni stampa per garantire maggiore efficienza nella gestione del flusso di lavoro ai giornalisti e agli uffici stampa, offrire uno spazio di formazione per i giovani critici e giornalisti di settore, per la formazione e promozione di nuovi talenti – come accade per esempio a Berlino –, offrire soluzioni logistiche convenienti ai giornalisti, categoria tra le più sottopagate in assoluto. Queste sono solo alcune delle sfide che il Festival di Cannes dovrà affrontare per diventare più sostenibile nell’interesse di tutti, e quindi anche dell’Industria e davvero inclusivo, ma sulla base della qualità, che ricompensa sul lungo termine in maniera più sostanziale.
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