Saburo Teshigawara e Rihoko Sato rileggono il classico dei Ballets Russes al Teatro Malibran di Venezia
Saburo Teshigawara e Rihoko Sato hanno presentato in prima assoluta al Teatro Malibran di Venezia la loro ultima opera, Petrouchka. Uno sviluppo che muove da un classico dei Ballets Russes e dal riesame di una marionetta popolare, da tempo immemore presente nelle feste di paese e nelle fiere russe. Si tratta di un’opera d’arte totale che vede coreografia e danza di livello eccelso comporsi con le arti visive, la musica, con una sapiente costruzione di sculture di luce, con costumi incredibili e un colpo di scena finale – lo smascheramento – lo strapparsi la maschera di scena del protagonista.
In fondo la marionetta, il burattino, l’automa, la maschera, il feticcio, sono elementi che tradizionalmente ci interrogano sulla autenticità del nostro io, del nostro Sé, del nostro me (nel senso francese del moi), per mezzo di una relazione oggettuale/inter-oggettuale e trans-oggettuale. Tra le arti, musica e danza sono quelle che non possono prescindere da una profonda e disciplinata relazione quotidiana sia con il mondo degli oggetti che con il proprio corpo, e questo interrogarsi sulla natura umana viene magistralmente realizzato con Petrouchka.
Del resto la maschera ha molte interessanti etimologie: dall’indoeuropeo Masca ossia annerito, fuliggine, alla versione Prosopon (in greco antico: πρόσωπον), ossia tradotto prosōpōn: che apre il senso e viceversa, da persona a personaggio. Il Petrouchka di Teshigawara ci interroga, soprattutto in questi tempi orrendi di guerre ad alta e bassa intensità, tempi di distruzione, di disarmonia ambientale, sociale, psicologica, e ci rammenta di quando ciascuno studiando a scuola la storia fin dall’infanzia ricorda due filoni: da un lato un ininterrotto gigantesco tentativo di annientare altri uomini, attraverso guerre, stragi, saccheggi, genocidi, sfruttamenti, riduzioni in schiavitù, la disumanizzazione; dall’altro lato, immaginare e realizzare luoghi meravigliosi per l’umanità con le arti, la poesia, la letteratura, il teatro, la danza, la pittura, la musica, l’architettura, la scienza, ovvero l’umano impulso a costruire – e per costruire ci vuole tanto amore, ma ci vuole anche la libertà.
E la libertà in ogni sfumatura è al centro dei discorsi e degli scritti di Teshigawara, come scrive nel catalogo, come ha detto nella Biennale Sessions di Escuela Moderna, come ha ribadito nel dialogo al termine dello spettacolo del 22 Luglio al Malibran. La tragica trama la conosciamo, è la settimana di Carnevale, una fiera, imbonitori, zingare, artisti di strada e passanti, poi arriva il Ciarlatano con il suo carro e mette in scena una vivace danza russa con la Ballerina, Petrouchka e il Moro che come per incanto si animano. I burattini sono prigionieri del Ciarlatano, ma è Petrouchka a vivere la vita peggiore tra l’amore non corrisposto per la Ballerina e le prepotenze del Moro.
Petrouchka ama la Ballerina, che invece gli preferisce il Moro, perciò Petrouchka tenta di impedire la loro relazione. Ma finirà bastonato prima, e poi ucciso in pubblico. Il Moro si difenderà con la polizia dicendo che aveva ucciso solo un burattino che invece del sangue aveva solo segatura. Ma quando il Ciarlatano raccoglie il suo teatrino col burattino rotto, compare il fantasma di Petrouchka che lo spaventa e lo mette in fuga. La morte gli ha donato una forma di liberazione dalla servitù.
Nella versione di Teshigawara questa morte anima la marionetta e gli restituisce una umanità emancipata dalla condizione di marionetta, di strumento nelle mani del Ciarlatano e sembra quasi compiere un miracolo, la realizzazione di un sogno. Del resto qual è la magia del teatro se non quella di metterci in crisi? Di sospendere il tempo? Di governare il vuoto? Il grande scenografo Salvatore Vendittelli (primo produttore di Carmelo Bene per intenderci) diceva che la Tragedia mette in gioco l’individuo, chi assiste diventa Edipo, Oreste o Amleto, diventa Macbeth e ne vive ogni tormento. La Commedia mette in crisi la società: pensiamo a Aristofane e alla sue le donne alle Tesmoforie o le donne in parlamento, o ancora alla Mandragora di Machiavelli o al ditegli sempre di si di Eduardo. Infine il Grottesco, genere sublime che mette in crisi contemporaneamente l’individuo, la società e non solo gli spettatori, attraverso la visionarietà riassume i caratteri tragici e Comici della vicenda umana, portando allo scoperto verità altrimenti indicibili.
A mio avviso, il capolavoro di Teshigawara sta da un lato in questa fedeltà al Petrouchka originale, quello di Fokine, Stravinskij, Djagilev e Nižinskij, che all’epoca scandalizzarono parte della critica con le dissonanze e le tinte forti, appunto grottesche dell’opera in questione, mentre a Vienna, alla Wiener Philharmoniker, la partitura fu definita addirittura schmutzige Musik, ovvero musica sporca, sconcia… Ma le Avanguardie, si sa, non sono immediatamente comprensibili ai più.
Dall’altro lato, Teshigawara compie una riduzione sconvolgente, evoca: infatti li percepiamo tutti i personaggi, la folla del mercato, la Ballerina, il Moro, il Ciarlatano, e lo stesso Petrouchka… Ma in scena vi sono solo lui e Rihoko, di nuovo il governo del vuoto, il less is more di Mies van der Rohe. Se cerchiamo di andare oltre la meraviglia dei costumi e delle luci, dei suoni e dei ritmi, oltre l’irripetibilità di cui ogni danza è portatrice, se andiamo oltre i personaggi e rientriamo noi come persone in un viaggio andata e ritorno e ancora andata e ritorno, viene da domandarsi: chi di noi è Petrouchka? Quale amore non ci ricambia? In quale mercato o Carnevale, viviamo, sogniamo, amiamo e lottiamo fino a morire? Quali ‘Mori’ sono i nostri assassini? Quali Ciarlatani sono i nostri sfruttatori e padroni? Saremo anche noi capaci alla fine della fiera di strappare dal nostro volto le nostre maschere?
https://www.labiennale.org/it/danza/2022