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Stranieri a noi stessi: alla ricerca delle porzioni di cielo di Luca De Angelis

Luca De Angelis, La stagione straniera, vista della mostra
La mostra “La stagione straniera” alla Fondazione Antonio Coppola di Vicenza prosegue il programma espositivo coerente con i gusti del collezionista: stavolta Coppola rivolge l’attenzione a un “giovane” artista italiano, grazie anche alla sinergia con la galleria Annarumma di Napoli

Se c’è un tema che in ragione della sua urgenza e necessità è diventato ricorrente tanto nel dibattito politico quanto nelle espressioni della cultura, dell’arte, del pensiero è quello del nostro rapporto (nostro nel senso di noi sapiens) con tutta la “natura” che non siamo noi, sia animale sia vegetale, alla quale abbiamo dichiarato guerra. Dibattere su questo tema è un modo – tardivo – per cercare un approccio diverso con questa “natura” che magari non sia esclusivamente di sfruttamento e ci dia la possibilità di immaginare un futuro che non sia di semplice sopravvivenza. In arte, la ricerca di un approccio diverso a tutta la natura che non siamo noi si esprime in svariati modi, in questi ultimi anni, ad esempio, molte esperienze incrociano l’estetica e la scienza per cercare lì, in quella zona di confine, nuovi punti di vista, nuovi modelli, come se tutto il vivente dovesse essere riclassificato seguendo un paradigma aggiornato e adeguato alle nuove conoscenze e necessità.

Non è l’unico modo di affrontare l’argomento. Si può anche immaginare una natura che non esiste, dentro la quale fantasticare un noi come non siamo, per scoprire in questo modo nuovi punti di vista. È il caso della mostra in corso alla Fondazione Coppola di Vicenza: “La stagione straniera”, personale di Luca De Angelis – aperta fino al 12 marzo, tutte le informazioni sono disponibili sul sito della Fondazione.

La mostra prosegue il programma espositivo della Fondazione, coerente con i gusti e le scelte di Coppola come collezionista: ha aperto l’attività nel 2018 con una doppia personale di Neo Rauch e Rosa Loy e quindi proposto, tra gli altri, Nana Wolke e Marckus Schinwald. Ora, con De Angelis, Antonio Coppola – di cui non si può non apprezzare la volontà di una simile iniziativa in una città come Vicenza decisamente disabituata al contemporaneo – rivolge l’attenzione a un “giovane” artista italiano, grazie anche alla sinergia con la galleria Annarumma.

Luca De Angelis

Le suggestive sale della Fondazione, sei piani terminali di un Torrione tardo medievale alle porte della Città, restituite alla fruizione dopo un accurato lavoro di restauro, sono punteggiate da quadri che hanno come argomento proprio la figura umana nel paesaggio.

Il curatore Davide Ferri, nelle note che accompagnano l’esposizione, fissa l’attenzione sulle figure umane «che non corrispondono a ritratti di persone conosciute, ma che l’artista fa emergere per emanazione dal paesaggio» e, in effetti, è il paesaggio l’elemento da cui sprigiona il fascino più intenso. Ancora con le parole di Ferri: «Che tipo di paesaggio è dunque quello che appare nei suoi dipinti? Un paesaggio sempre angusto, articolato attorno a un primo piano molto ravvicinato, sfarzosamente sgargiante, esotico e irreale: di alberi, piante, foglie e fiori che difficilmente si potrebbe nominare e si sviluppano intrecciandosi in andamenti sinuosi e curvilinei ma segnati da contorni secchi su una superficie spessa, con la trama del lino sempre in evidenza. Una specie di pattern o viluppo opulento che, proliferando in ogni zona della superficie, tende a negare allo spazio la profondità, o a restringere la possibilità di visione su porzioni, anche minime, di orizzonte o cielo».

Sono tessiture compatte e dipinte con grande perizia di vegetazione misteriosa che sfugge a ogni tassonomia, una natura rigogliosa, immaginosa, pezzi di una vita vegetale “straniera”, una natura che non si può non definire surreale, o surrealista. Sempre Ferri, nel foglio di sala, oltre a richiamare riferimenti italiani come Oppi o Casorati, parla esplicitamente di “realismo magico”, compiendo una correlazione esplicita con una parte piuttosto feconda del Surrealismo storico in una declinazione che oggi si va riscoprendo, e non a caso. Insomma, siamo sempre lì, a gironzolare nei dintorni del Surrealismo.

Luca De Angelis, La stagione straniera, vista della mostra

Come se gli artisti e i poeti di quella stagione – attivi mentre l’Europa precipitava nel suo catastrofico delirio identitatio – abbiano saputo elaborate modelli di pensiero e azione che oggi risultano più che mai utili: la sovversione delle «percezioni sensibili» e del «codice delle immaginazioni», i «comportamenti mentali e linguistici che il surrealismo ha indicato come valori» (Franco Fortini, Il movimento Surrealista), sembrano essere le uniche mosse possibili per uscire dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati, incapaci come siamo di immaginare, come cultura e come comunità, uno straccio di futuro. Perché è innegabile, siamo schiacciati nel presente, anzi, peggio, siamo ovunque imprigionati nella rivendicazione di una qualche forma di identità concepita come retaggio, appartenenza a un passato, a una storia, a una genealogia – ideologica, razziale, culturale, religiosa, sessuale – e incapaci di pensarci liberi da vincoli di parentele, eredità, memorie.

Allora rifugiarsi (o, per lo meno, rifugiare lo sguardo) in questa natura rigogliosa e bellissima ma “straniera”, addirittura aliena, non è una via di fuga, un disarmarsi per poter scappare senza intralcio dalla morsa della realtà, quanto piuttosto un divincolarsi dalla presa del realismo che tiene ancorati a una prospettiva tanto angusta.

Dentro a questo mondo irreale, straniero, c’è forse la possibilità di diventare per un attimo stranieri a noi stessi. Essere stranieri a se stessi, come stranieri appaiono i personaggi alteri e silenziosi che attraversano i quadri di De Angelis, è qualcosa che probabilmente atterrisce gli ultras dell’identità al comando oggi. Ma in un mondo divenuto straniero, o meglio, in cui noi siamo diventati finalmente stranieri, potremmo forse cercare un nuovo «codice delle immaginazioni» capace di indicarci un modo diverso per relazionarci con tutta la natura – animale, vegetale, umana – che non siamo noi, in cui siamo immersi e che siamo incapaci di percepire, una cecità che ci sta conducendo verso un rapido e consapevole disastro. Nei paesaggi dipinti da De Angelis, in quelle «porzioni, anche minime, di orizzonte o cielo» si scorge, forse, flebile e paradossale la luce di un possibile futuro.

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