L’origine il tema cardine scelto dalla Fondazione Pomodoro di Milano per progettare le mostre nella Project Room dell’anno 2022, curate da Chiara Pirozzi e Alessandra Troncone, dove l’artista ha realizzato il lavoro.
Orme nel terreno, incise come fenditure profonde nella crosta stratificata di materia, che fa riaffiorare quei solchi. Sedimentazioni lasciate dalle strutture biogeniche (dagli organismi viventi) che diventano tracce di un percorso a ritroso nel tempo, in grado di raccontare le evoluzioni delle specie. Eppure, nuova genesi di un mondo che da lì, da quel ripido impluvio, riscrive percorsi che si fanno improvvisamente contemporanei. La roccia è nuda, lo strato di terreno ha mantenuto intatte le tracce che si sono incontrate disegnando una mappa generatrice di territori da esplorare. Un’unica impronta riempie la cavità che si apre sulla materia, tuttavia distinguibile.
Per Vibeke Mascini (L’Aja, 1989) le tracce rappresentano la possibilità di un incontro, un Rendevous che non avviene tra oggetti che gravitano nello spazio (da cui l’origine del significato), ma tra i vuoti della materia cui si restituisce una dimensione fisica di un corpo. Lavora sul recupero di quelle memorie, partendo dal concetto di origine, nel suo senso temporale e ontologico. L’origine è anche il tema cardine scelto dalla Fondazione Pomodoro per progettare le mostre nella Project Room dell’anno 2022, curate da Chiara Pirozzi e Alessandra Troncone, dove l’artista ha realizzato il lavoro.
Le tracce sono il ricordo e la rappresentazione estetica di un passaggio che per un insieme di motivi, anche fortuiti, si sono aggrappate alla materia. Prodotte da corpi con pesi diversi in un lasso temporale variabile. Sopravvissuti pur nell’assenza della loro fisicità, si avviano verso ulteriori processi di trasformazione con il passaggio di altre specie (anche umane).
Ma torniamo per un momento all’origine del nostro discorso, dove tutto ebbe inizio, circa 200 milioni di anni fa. Nell’antico luogo in cui l’Oceano Tetide bagnava la Pangea, il supercontinente che lentamente si è diviso, e ha lasciato al suo posto montagne e bacini nascosti sotto altri mari. Siamo ai piedi delle Alpi, in una zona di montagna dove è possibile osservare il passato remoto (con i dinosauri nel sito paleontologico), e il futuro prossimo (con le stelle per via di un importante osservatorio astronomico). Presso i Lavini di Marco sul Monte Zugna (Rovereto), sono stati trovati affossamenti che hanno scoperto dettagli di una vita mesozoica. Sono i dinosauri e le specie successive o precedenti, che hanno lasciato impronte segnando un’area un tempo melmosa, non tradendo così, le aspirazioni umane di trovare le tracce di una vita prima del suo stesso passaggio.
L’artista riproduce le tracce e il sito montano per collocarlo in uno spazio lontano dagli ambienti nativi. Aggiunge elementi nuovi che producono ignote formazioni: come l’elettricità e la specie umana, che diventano materiale di indagine e materia di produzione, nel medesimo tempo. Scavando nell’archivio di Arnaldo Pomodoro rintraccia l’osso di seppia utilizzato nelle prime sperimentazioni scultoree, e si avvia a una riflessione intorno all’uso dello stesso come detentore di pieni e vuoti. Rendevous nasce da suggestione originarie, in un momento storico segnato profondamente da scenari futuristici e futuribili.
Pensare alle origini delle specie, in una fase in cui contempliamo la probabilità di una fine postuma, è quanto mai una situazione profetica? Le probabilità che anche la specie umana si estinguerà sono abbastanza alte, per ragioni diverse: la presenza del più grande predatore della storia, ovvero l’uomo; l’oggettività della condizione geopolitica attuale, e quella che chiamiamo ormai per convenzione, crisi climatica (che comprende sia fenomeni naturali da sempre esistiti, sia conseguenze che sono il prodotto dell’attività umana). Tuttavia, tra queste si affaccia anche una ragione evoluzionista, come sostiene Nicholas R. Longrich (paleontologo e biologo evoluzionista), che evidenzia come tutte le specie (anche quelle umane i Neandertal, i Denisova, gli Homo erectus) si siano estinte, eppure: “The question isn’t so much whether humans survive the next three or three hundred thousand years, but whether we can do more than just survive”[1].
L’uomo è vulnerabile. Per questo nel corso delle epoche ha utilizzato le conoscenze e gli strumenti a disposizione per prolungare il suo passaggio sul pianeta, colonizzando territori e esplorando altri mondi, in cui potersi un giorno stabilire. Oggi come allora, le aspirazioni umane sono le medesime; vivere più a lungo, avere a disposizione risorse per soddisfare le necessità dei suoi abitanti (a oggi otto miliardi concentrati soprattutto in alcune aree geografiche). Farlo nel pieno della quarta rivoluzione industriale, nella sua espressione più radicale, significa avviarsi verso la produzione di umanoidi e di umani sempre più tecnologici, fino a raggiungere primati di anti-umanità (come già ribadito in altre occasioni). Nella prospettiva di un’estinzione queste “specie ibride” saranno in grado di sopravvivere?
La cultura – soprattutto occidentale e eurocentrica che è principalmente quella di nostra appartenenza – è intrisa di narrazioni che celebrano l’intelligenza umana. Eppure, oggi occorre domandarsi se l’intelligenza da sola non sia più sufficiente per rispondere alle necessità del futuro, se non siano indispensabili altre qualità, come una profonda saggezza, prima di tutto. Un uomo saggio distruggerebbe il pianeta in cui vive, o minerebbe l’ecosistema e la biodiversità pur nella piena e totale consapevolezza che la sua sopravvivenza stessa dipenda direttamente da questo? Massimo Bernardi (Conservatore per la Paleontologia presso MUSE Museo delle Scienze di Trento) in conversazione con l’artista (nell’opuscolo prodotto per la mostra), ribadisce l’interrelazione tra le specie e afferma come nessuna sia indipendente dall’altra (tanto più quella umana).
Ma torniamo alla cavità prodotta dalle specie giurassiche. Alle fratture del terreno bagnate un tempo dall’acqua che, proprio grazie alla giusta quantità, si sono fossilizzate in quella che i tecnici chiamano la “finestra di formazione”. Immaginiamo che qualche altra forma di vita, in un tempo lontanissimo, riconoscerà insieme a quelle anche le nostre. Perché distinguere un’impronta è possibile grazie alla conoscenza e all’esperienza umana. Basti pensare alle capacità di osservazione e di ascolto dei cacciatori, e di certe comunità che vivono in luoghi lontani dalle grandi metropoli – dove si è educati alla pratica dell’ascolto attivo e dell’osservazione dei segni della natura. Ma quando si utilizzano anche le tecnologie più sofisticate, non solo è possibile individuare tracce di viventi (umani e non umani), ma anche di specie ormai estinte, attraverso l’iconologia (ichnos -traccia, logos- discorso, ovvero lo studio delle tracce), teorizzata la prima volta dal geologo inglese William Buckam nel 1836. Tecnicamente consente di identificare forme, dimensioni, profondità, distanza tra i passi, e molto altro ancora, di impronte fossili. Le tracce diventano così, carte topografiche che segnano confini e traiettorie tra specie e tempi.
Dal punto di vista metodologico, il calco permette lo studio e la conservazione di un’impronta. Vibeke Mascini attraverso la collaborazione del MUSE Museo delle Scienze di Trento, che ha messo a disposizione sapere e strumenti, produce la scansione e il calco del sito dei Lavini in 3D in scala 1:1. Il pavimento in pietra della galleria diventa il luogo perfetto in cui collocare le superfici che simulano porzioni di terreno a grandezza naturale, attraverso blocchi di materiale con cavità più o meno profonde.
Lo spettatore entrando inciampa nel primo blocco di orme. Prosegue sul fondo della sala, in cui lo sguardo arriva prima del passo, dove i blocchi questa volta sono due. Solo avvicinandosi è possibile vedere la differenza. In uno di questi Vibeke Mascini ha inserito dell’acqua nell’incavo. Le vibrazioni prodotte dall’anidride carbonica accumulata nello spazio permettono il movimento dell’acqua, utilizzando un rilevatore chiuso in una scatola di legno che raccoglie le informazioni. L’elettricità e l’uomo sono gli elementi che l’artista introduce, generando contrappunti che creano più polifonie, avviando così a una riorganizzazione della mappa del sito riprodotto. L’associazione non è immediata, sarà successiva al suo ingresso nello spazio, ma il pensiero che le sue immateriali tracce si possano fondere con quelle passate, è un pensiero straordinario.
L’energia sfruttata dall’artista è alimentata a batteria, una scelta consapevole che diventa nel suo lavoro materia estetica e matrice di indagine sulle possibili connessioni. Se l’energia elettrica rimanda a proiezioni future in cui sarà difficile immaginare di restare senza (sebbene ci siano luoghi in cui non è una risorsa così scontata per motivi storico-politici, geografici, culturali), le tracce dei dinosauri teropodi e sauropodi, di fossili e molluschi ricordano un passato originario che, nelle parole di Massimo Bernardi, rivelano un’immagine di atavica memoria che si fa poetica.
I fossili sono forme e resti che attraversano i tempi. Sopravvivono all’assenza dei corpi che li hanno prodotti. Spesso omessi alla conoscenza umana per via di fattori contingenti (collocazione, impossibilità di trovarle). Eppure, quando scoperti rappresentano un tassello fondamentale per scrivere la storia delle specie e della loro evoluzione: «nella terraferma e nei monti si trovano conchiglie, a Siracusa, nelle latomie, si sono trovate impronte di pesci e di foche, a Paro l’impronta di una sarda nella pietra viva e a Malta impronte di ogni sorta di pesci. Questo è avvenuto quando anticamente tutto fu ridotto a fango e l’impronta del fango si è disseccata» scriveva Senofane di Colofone (570 a.C. – 475 a.C.), citato da Ippolito di Roma.
Questo contenuto è stato realizzato da Elena Solito per Forme Uniche.
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[1] N.R. Longrich, Will humans go extinct? For all the existential threats, we’ll likely be here for a very long time, 5 Maggio 20220, The Conversation
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