Babylon: il successo è un miraggio per cui forse vale la pena sacrificare tutto. Al cinema dal 19 gennaio il nuovo film di Damien Chazelle
Tutti i film di Damien Chazelle, almeno da Whiplash in poi, ruotano fondamentalmente attorno agli stessi temi. Poco importa se la vicenda è ambientata al giorno d’oggi o proiettata nel passato. Poco importa se si tratta di una storia vera o di un racconto di finzione. I protagonisti possono essere musicisti, attori, persino astronauti, ma presentano sempre lo stesso tratto fondamentale, e cioè un’ambizione sfrenata al limite dell’ossessione. Le traiettorie dei personaggi di Whiplash e La La Land, malgrado le svariate differenze tra i due film, sono pressoché identiche: perseguono i loro sogni ad ogni costo fino a raggiungere il tanto agognato successo, macchiato da una punta di rimorso per quello che hanno perso o sacrificato deliberatamente lungo la strada. Questo paradigma aveva cominciato a incrinarsi con First Man, il ritratto di un uomo distrutto, pronto a dedicare anima e corpo a un’impresa rischiosa pur di non affrontare la perdita di una figlia. L’impresa, l’allunaggio, è un trionfo, ma rimangono un dolore da affrontare, una famiglia da ricucire, un’intera vita ancora da vivere.
Con Babylon, ancora una volta, Chazelle torna a interrogarsi sul tema del successo, del “farcela”, del raggiungere un risultato artistico o storico tale da sottrarne l’artefice dalla precarietà dell’esistenza e da consegnarlo per sempre all’immortalità. Probabilmente continuerà a interrogarcisi, perché Babylon non chiude affatto la questione: per Chazelle, il successo, primo fra tutti quello in nome dell’arte, è ancora una sirena al cui canto non si può che tendere l’orecchio, un miraggio per cui forse vale la pena sacrificare tutto. Ma proprio su questi sacrifici il regista non è più disposto a chiudere un occhio, né può considerarli ancora come un triste ma doveroso tributo all’altare della creazione artistica. Così Babylon si trova sul crocevia di queste opposte tensioni: l’amore sconfinato per un’arte e un odio implacabile per i meccanismi malati di quell’industria che le sta attorno.
Cercare di riassumere la trama del film sarebbe difficile, oltre che probabilmente controproducente. Le vicende si dipanano in un arco di tempo che va dal 1926 al 1932, anni in cui l’inesorabile fine del cinema muto si accompagna al tramonto dell’età del jazz, con tutti i suoi eccessi e le sue contraddizioni. Su questo sfondo si stagliano gli innumerevoli personaggi che popolano il film. C’è Manny (Diego Calva), un giovane messicano armato di sogni, speranze e uno sconfinato amore per il cinema. C’è Nellie, altrettanto ambiziosa ma ben più smaliziata, una mina vagante in cui vitalità e autodistruzione si fanno la guerra. È interpretata da Margot Robbie, che regala la sua prova migliore dai tempi di Tonya. A completare il trio dei protagonisti è Jack, Brad Pitt (nuovamente molto bravo), la star che non sogna nulla perché ha già tutto e che è incapace di pensare a un mondo che non avrà bisogno di lui. Scoprirà a sue spese di sbagliarsi, ma non è l’unico: Babylon pullula di personaggi impegnati in una frenetica ricerca che li condurrà solo al fallimento o a un successo puramente effimero. Alcuni si lanciano in una lotta donchisciottesca contro nemici eterni e immutabili: il tempo che avanza, per esempio, o la necessità dell’arte di rinnovarsi e andare avanti, noncurante di tutti quelli che lascerà indietro sul suo cammino. Altri, come l’attrice sinoamericana Lady Fay Zhu (Li Jun Ji) e il trombettista nero Sidney Palmer (Jovan Adepo), cercano di farsi strada in un panorama razzista che mortifica i loro talenti per plasmarli a uso e consumo di un pubblico bianco.
Chazelle, anche ispirandosi ad alcuni personaggi reali, offre un ritratto impietoso della Old Hollywood, ma è chiaro, anche a partire da diversi tocchi anacronistici, che la sua critica si estende al presente di un’industria che, con modi sempre nuovi, continua a creare esclusione e a spolpare i talenti che non sa valorizzare. Eppure l’amore per il cinema è ribadito da ogni singola scena, da ogni inquadratura, e questo non tanto per le numerosissime citazioni di cui il film è costellato, ma per la straordinaria inventiva con cui Chazelle impiega il mezzo cinematografico.
Ci sono sequenze così riuscite, come la festa che apre il film o tutte quelle ambientate sui vari set cinematografici, da lasciare senza fiato. Il film fa sfoggio di gran virtuosismi, a partire da alcune scelte atipiche di montaggio fino alla roboante (e perfetta) colonna sonora. Gli si perdona tutto, perché funziona (quasi) tutto: la forza del film sta proprio nel contrasto tra il suo messaggio polemico verso il mondo cinematografico e la sua forma che ne tradisce l’adorazione.
Babylon è un film troppo ambizioso per essere perfetto: alcune delle sottotrame, evidentemente ridotte in fase di montaggio, lasciano un senso di incompiutezza, e il finale è troppo didascalico, oltre che pretenzioso, per poter convincere a pieno. Ma, con tutti i suoi difetti, Babylon è un’esperienza cinematografica travolgente, da cui è impossibile distogliere gli occhi per le sue tre ore di durata. È il film di Chazelle che, almeno in patria, è stato accolto in maniera meno entusiastica. Ad oggi è anche il suo film migliore.