In scena fino al 3 febbraio al Teatro Carlo Felice di Genova Un ballo in maschera con musica di Giuseppe Verdi e regia di Leo Nucci
Quando Verdi scrisse Un ballo in maschera era un uomo oramai maturo. L’opera debuttò il 17 febbraio 1859 al Teatro Apollo di Roma e Verdi da otto anni aveva alle spalle una vita piena, come altrettanto piena era la sua carriera: nel 1852 fu insignito della Legione d’onore; nel 1853 era uscita la sua trilogia popolare formata da Il Trovatore, La Traviata e Rigoletto; nel 1855 all’Opera di Parigi aveva debuttato I Vespri Siciliani; nel 1856 era stato addirittura ospite di Napoleone III; nel 1857 erano uscite Simon Boccanegra e Aroldo e il 29 agosto 1859 il compositore, in forma privatissima, aveva sposato la compagna Giuseppina Strepponi.
Il 1858 e il 1859 sono stati gli anni in cui il compositore di Busseto era in crisi con il teatro italiano e gli anni in cui si svolgeva la campagna risorgimentale, che abbracciò fino ai Moti di Milano del ’48. Il Risorgimento costituì l’humus da cui Verdi trasse ispirazione per le pagine corali di Nabucco, Attila, Macbeth, dove espresse il suo amor patrio e il dolore per un popolo oppresso e asservito. Un Ballo in Maschera era un’opera nata bene, ma che fu subito intralciata dalla censura. Cambiò titolo diverse volte e dovette anche mutare i luoghi in cui si svolgeva la vicenda e i nomi dei protagonisti. La censura napoletana infatti chiese 7 cambiamenti alla prima stesura dell’opera: personaggio, regione, amore (che deve contenere rimorso), nessuna arma da fuoco, la strega non deve essere natia di paesi cristiani e non ci deve essere alcun riferimento a fatti storici. Ma a questo punto “manca colore nella mia tavolozza” fece notare Verdi stanco e indignato per tutto questo.
Da un punto di vista stilistico Ballo in maschera è un’opera sui generis. La sua musica attraversa indenne tutti i cambi di secolo e ambientazioni. “Ballo” vive in un mondo proprio. “Brio e patetico” è la ricetta che ci dà Verdi e che mette in atto in Un ballo in maschera. “Il clima della corte è leggero e stride con l’esito della vicenda”: fu rimproverato al Maestro. Malgrado gli venisse richiesto di rinunciare alla frivolezza, alla gioia di vivere, lui rifiutò. Nel concepire il clima gaudente da esteta, che è il grande clima in cui è calato Un ballo in maschera, ha un riferimento: Parigi. Lì ha vissuto gli anni ’40 e ’50. Il modello della corte è quello della Corte di Re Sole. Le danze sono quelle del ballo più popolare ai tempi: il galoppe, ovvero il can can (e gioia di vivere). Verdi in questa straordinara opera ha colto nel soggetto di Scribes e Obert l’occasione per mettere in scena quello che gli piaceva: il tragico – grottesco. E’ molto sicuro di sè in questo lavoro ed il successo dell’opera sta proprio qui. Ogni sua scelta stilistica gli darà ragione. Così vicina alla perfezione, sia formale sia nell’equilibrio delle idee, Un ballo fu il lavoro che resse meglio il palcoscenico.
L’allestimento che ha debuttato venerdì 27 gennaio al Teatro Carlo Felice di Genova è una produzione della Fondazione Teatri di Piacenza, del Teatro di Ravenna e del Comunale di Ferrara e vede la regia di Leo Nucci che – come aveva anticipato in conferenza stampa – ha offerto una lettura filologica dell’opera, nessuna stranezza nelle scene e costumi, tutto come sarebbe stato ai tempi di Verdi. Operazione indubbiamente vincente grazie anche all’ottimo cast che per la prima comprendeva: Carmen Giannattasio (Amelia), Francesco Meli (Riccardo), Roberto de Candia (Renato), Maria Ermolaeva (Ulrica), Anna Maria Sarra (Oscar), Marco Camastra (Silvano), John Paul Huckle (Samuel), Romano Dal Zovo (Tom), Giuliano Petouchoff (Un giudice), Giampiero De Paoli (Un servo).
Meli, tenore genovese tra i maggiori protagonisti del panorama lirico odierno, con il suo timbro rotondo e caldo ha fatto sfoggio delle sue capacità canore nei tre pezzi forti del suo personaggio (Riccardo) “La rivedrò nell’estasi”, “Di’ tu se fedele il flutto” e “Ma se m’è forza perderti”, ma non solo; ma abbiamo avuto modo di apprezzare anche il soprano Carmen Giannattasio tanto nel II quando nel III atto in quelle arie intense previste dal personaggio di Amelia. Bravissimo anche il baritono Roberto de Candia che nella famosa aria “Eri tu che macchiavi quell’anima” si è guadagnato caldi applausi da parte del foltissimo pubblico. Meno convincente Anna Maria Sarra, il suo Oscar non esce fuori come dovrebbe, il brio necessario è sostenuto da una voce troppo spesso sovrastata dall’orchestra. E’ un peccato che “Volta la terrea”, come altre canzoni di Oscar, appaiano deboli. Maria Ermolaeva, chiamata all’ultimo momento a sostituire l’indisposta Agostina Smimmero nel ruolo di Ulrica, è stata convincente, ma potrebbe fare di più per arricchire la drammaticità del ruolo.
Ancora una volta invece non si può che lodare la grande intelligenza interpretativa di Donato Renzetti, direttore emerito del Carlo Felice. La sua direzione è sempre attenta nel cogliere ogni passaggio della partitura, dalle allegre arie popolari alla drammaticità di quegli accenti che Verdi ha dato nelle scene più cupe e drammatiche. Un’opera che dopo il mezzo fiasco del Simone Boccanegra aveva portato Verdi ad azzardare rilanciando una musica di leggerezza settecentesca, che arieggia il rococò di trilli e acciaccature, ma che comprende anche schianti paurosi di accordi, il timbro sinistro del clarinetto in do, frammenti melodici oscuramente striscianti che riprendono quell’armamentario orrido e ‘grottesco’ già adoperato nel Macbeth.
Un appunto però si deve fare per le danze dell’ultimo atto: le coppie dei ballerini non fanno granché e spesso si trovano a danzare dietro il coro non palesandosi al pubblico. Perchè, dal momento che la danza nel III atto di Un ballo in maschera ha un ruolo di primaria importanza? Nel complesso comunque si può dire uno spettacolo ben riuscito, molto gradito dal pubblico fatto soprattutto (e per fortuna) di giovanissimi che, con grande gioia di tutti, constatiamo abbiamo preso ad apprezzare la musica del passato, ma non per questo mai tramontata.