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Contro l’innocenza dell’arte. Una giovane critica d’arte risponde ad Achille Bonito Oliva

Achille Bonito Oliva Achille Bonito Oliva
Achille Bonito Oliva
Achille Bonito Oliva

Una giovane critica d’arte interviene nel dibattito aperto da ArtsLife dopo il corsivo pubblicato da Achille Bonito Oliva su Robinson di Repubblica

Dopo il corsivo di Achille Bonito Oliva, un fantastico fervore critico si sta animando in rete con l’inchiesta di ArtsLife. Mi pare che fra tante parole, la questione si riduca ad un interrogativo: esiste o no un sistema dell’arte? Suppongo che ciascuno sarebbe felice di dirsi nudo e spensierato abitante di un giardino edenico. Tuttavia – a meno di non condurre vita eremitica – possiamo definirci tutti, dal fruitore al critico, dal curatore al gallerista, dal collezionista all’artista – “soggetti produttori di cultura” (o d’incultura). E siamo noi a fare sistema. Sarà allora da spostare il focus su un secondo interrogativo: quanto è malato questo sistema e quali i catastrofici esiti? Impossibile la resa sinottica della situazione, per la quale sarebbe più agevole uno schema con freccette e asterischi, ma una breve disamina si può tentare.

A me pare di poter affermare (forse traviata da malizioso cipiglio?) qualcosa che sembra eccezionalmente sfuggire: l’arte non è innocente. Potremmo anche affidarci ad una lettura dell’opera secondo una prospettiva spirituale-idilliaca, ma a che pro? Il Pelìde ha ragione di dubitare di quest’ottica. Condivido quel che scrisse il caro Edoardo Sanguineti: “la nozione di opera come dispositivo autogeno è un feticcio come la merce, peggio di qualsiasi merce, in cui si nasconde, codificata, la relazione pratico-concreta tra due soggetti” (La missione del critico, 1986). E che l’artista resti elemento trascurabile è affermazione largamente confutata già nelle parole di Carla Benedetti (L’ombra lunga dell’autore, 1999) dalla malattia cronica progressiva della modernità: l’autorialismo.

Arte e merce

La morte dell’autore (Barthes) è solo un mito tardo moderno, una teoria affatto casta sulla quale si è insistito e si insiste ad hoc con due esiti. La ridefinizione dell’arte come sistema interdisciplinare totale (si tenta di compensare la presunta morte dell’autore con frenetici allacci fra le arti, spesso non graditi dagli artisti stessi). La ricerca spasmodica dell’autore senza il quale non si dà opera. Intanto l’industria dell’arte ha lavorato instancabilmente ottenendo risultati preoccupanti.

Se fino agli anni ’60 l’essere d’autore era criterio sufficiente per distinguere l’arte dalla merce (Adorno), oggi che l’autore è diventato, per forza di cose, combattivo imprenditore, non c’è quasi più distinguo. Nel guazzabuglio ribollito dell’autorialismo, poi, il postmoderno ha messo in discussione l’opposizione tra cultura di massa e cultura d’élite. Fino all’azzeramento oppositivo: l’arte di massa ha inglobato il suo contrario. Non vuole essere questa una crociata contro l’autore, ma contro quello che il sistema ha messo in pratica per trasformarlo. Sulle labbra del pubblico uscente dalle grandi mostre, spesso dimentico delle opere viste, risuona – vacuo mantra – il nome dell’autore.

Dinamiche di seduzione

È a noi che alletta il pettegolezzo, il chiacchiericcio godereccio in merito a quell’artista che vive in un palazzo ottocentesco di 300 stanze e a quell’altro che ha avuto per moglie una pornostar. A Tizio accusato per molestie sessuali o a Caio che vive in una chiesa sconsacrata fra le nebbie. “L’artista senza opera è lui stesso la propria opera” (Benedetti). E se alcuni artisti, che non desiderano soccombere ai meccanismi ben oliati che scattano tra l’inglobante industria culturale e l’egemonia autoriale, già da decenni hanno tentato tattiche di de-autorializzazione, vi sono anche quelli che finiscono per specchiarsi nell’immagine che gli è stata incollata addosso. Amare il proprio riflesso deforme. E che alfine lavorano per alimentarlo.

 

Lawrence Alma-Tadema, Le rose di Eliogabalo, 1888
Lawrence Alma-Tadema, Le rose di Eliogabalo, 1888

D’altronde che l’opera si assoggetti alle dinamiche sociali non è un dovere, ma la realtà dei fatti. L’arte non è innocente e si innesta oggi sulle dinamiche della seduzione. L’artista corteggia il gallerista e il pubblico gli strizza l’occhio, l’industria culturale è appagata dal triadico ménage. E se scorriamo assiduamente gli inviti alle biennali estere è perché non vorremmo sentirci esclusi da questo gioco afrodisiaco. I curatori acclamati lavorano sul sex appeal e sull’instagrammabilità dei percorsi.

Estetica emozionale

Si incoraggia la logica del Mi piace/non mi piace (Facebook). E mi pare che di alti e puliti altari in forma di sterili lapidi per l’opera d’arte, se ne siano eretti a bizzeffe nelle vacue operazioni blockbuster. O in quelle che gli si dicono nemiche e che finiscono per assomigliarvi terribilmente. Nessuno sforzo intellettuale richiesto. La bionda sfavillante estetica emozionale con le ciglia finte e il gel glitterato sulle unghie chiude la porta in faccia all’elegante ermeneutica, che non è ammessa al party delle vanità.

Vi sono selve di paradossi. Ci si commuove per il concetto di effimerità dell’arte contemporanea, poi se un’opera si sbriciola accidentalmente prima del poco tempo che gli è stato concesso (Koons), sembra sia una tragedia. Noi pubblico, invitati in prima fila a partecipare, preferiamo fare i voyeur, perché ci spaventa l’idea di sporcarci le mani.

Credo infine che l’annichilimento dell’individualità non riguardi l’artista, piuttosto il critico. In Quelli a cui non piace, Francesco Muzzioli scrive: “Oggi la critica si è spostata dalla parta dell’opera, sull’onda di un suo complesso di inferiorità, sulla scia di un debolismo post-moderno che ha denunciato come autoritario il gesto di giudicare, la fissazione di un canone e così via”. Tutto il potere al fruitore (ovvero: il cliente ha sempre ragione!). Infatti se un critico osa dire qualcosa viene coperto di strali, vedi Achille. La critica sta somigliando sempre più alla pubblicità: genera un discorso o immagine-discorso tutto intorno al suo prodotto, nella prospettiva commerciale.

La catastrofe

L’industria culturale non abbisogna di conoscere il valore dell’opera, semmai di prevederne l’accoglienza o lo scalpore repentino, il mercato non ha bisogno di critici, ma di consumatori di bocca buona, la critica non serve, ma serve la diminuzione della criticità”. Così al critico d’oggi non è più richiesto il ruolo di mediatore, ma di mezzano, e il lettore, a mente piatta, gode. Questo ai miei occhi è il panorama attuale, inflazionato. Siamo come gli ospiti al banchetto del debosciato imperatore Eliogabalo: accorriamo in ogni dove, da ogni dove, sedotti da quintali di fiori, a causa dei quali restiamo soffocati e immoti. Bisogna superare l’impasse. Bonito Oliva citando Nietzsche afferma che per creare bisogna sempre partire da una precedente catastrofe. Ecco, allora direi che ci siamo: la catastrofe è in atto.

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