Rituali collettivi fra legalità e illegalità. L’antropologo sulla controversa questione dei rave e le implicazioni sociali e culturali
Andrea Staid è docente di Antropologia culturale, dirige per Meltemi la collana Biblioteca /Antropologia. Nei suoi testi, tradotti in Grecia e Spagna e adottati in varie facoltà universitarie, racconta di migrazioni, lotta sociale e abitare. Mi sono rivolta a lui per parlare del panorama rave e dei centri sociali prendendo come riferimento alcune tematiche chiave di I dannati della metropoli (Meltemi, 2014), Abitare illegale (Milieu, 2017) e Contro la gerarchia e il dominio: debito nelle società senza stato (Meltemi, 2018).
Nei Dannati della metropoli affronti il tema della “città lecita” e “città illecita” e di come queste due realtà convergano e si influenzino soprattutto nel mondo della droga. A questo proposito come si può intendere la questione legale-illegale nel mondo rave?
Se si affronta da un punto di vista antropologico la questione “legale-illegale” direi che noi occidentali viviamo da secoli in uno stato di ipocrisia, dove i soggetti che si sentono parte della legalità pensano che l’illegalità sia mostruosa. Ma la realtà è un’altra, ed è abbastanza chiara quando si fa un’analisi del sociale, perché risulta evidente come l’illegale esista solo perché c’è la costruzione sociale di un concetto di legalità dall’altra parte e che il confine fra le due realtà è molto più labile di quello che i giornali o i media mainstream ci dicono. Per quanto riguarda invece la questione legata ai rave e alle droghe a me ha sempre fatto molto sorridere. Io non sono un fautore delle sostanze ma non sono un proibizionista. Detto questo mi stupisce che con troppa facilità venga strumentalizzato l’utilizzo della droga per dimostrare che i rave siano un sistema di illegalità.
È comune che venga fatta l’associazione: ai rave si vendono sostanze illegali quindi i rave sono illegali
Esattamente, ma in realtà sappiamo benissimo che in qualsiasi discoteca o club è pieno di sostanze illegali e che quindi l’unica differenza sta nel fatto che i rave non avvengono in club ma in spazi abbandonati, nella maggior parte dei casi. Quindi, ciò che infastidisce chi vuole far rispettare il concetto di “legalità” è l’occupazione abusiva. Dal mio punto di vista però, quando uno spazio è abbandonato se viene rivissuto, riconcettualizzato, reso denso, è solo qualcosa di positivo. Anche legale-illegale quindi a livello semiotico perdono di senso. La mia opinione è che l’occupazione di uno spazio abbandonato, quindi non utilizzato, privo di senso, non può neanche entrare nella sfera dell’illegale ma soltanto in quella, appunto, di una resinificazione. Lo spazio da morto diventa vivo perché “la mia etica” da un senso a quell’azione.
Spesso chi è al governo utilizza proprio il tema del pericolo per spostare l’opinione pubblica verso un’opposizione ai rave. Lo abbiamo visto in Inghilterra negli anni’80 e lo vediamo oggi in Italia
Si, spesso è stato sbandierato il fatto che i rave sono illegali perché pericolosi. Sarebbe interessante però avere dei dati certi del numero delle vittime dei rave negli ultimi trent’anni. Probabilmente non arriveremmo a 50/60 persone, che è grave, perché ogni vita conta, ma guardando a quante persone sono morte nei club e nelle discoteche legali sicuramente il numero è più alto. Soprattutto la questione “pericoloso, per cui illegale” non ha senso alla luce delle vittime nei cantieri ogni giorno. Cioè, se lo stato avesse veramente a cuore la sicurezza dovrebbe primariamente rivoluzionare la situazione nel mondo del lavoro. Questo non significa che io sia contro i club ma credo non sia corretto criminalizzare a priori una festa perché autorganizzata e perché sfugge alle logiche statali della legalità e della mercificazione.
Certamente, la necessità statale è quella di reprimere l’istinto di auto-organizzazione che come racconti tu in Abitare Illegale ma anche nella Casa Vivente è un sistema di scoraggiamento che parte dalla burocrazia. Quindi la burocrazia è un sistema strutturato per atrofizzare la capacità immaginativa e auto rappresentativa?
A me quello che piace nel mondo rave è esattamente questo, il fatto che c’è una rottura con la burocrazia. Il rave è un modo per dubitare di alcuni dati di fatto, alcune cose dogmatiche che arrivano dallo stato e dalla burocrazia. Ovviamente le feste sono una delle tante cose, ci sono 1000 altre situazioni altrettanto interessanti, magari meno criminalizzate, che avvengono fuori dalle norme burocratiche. Che poi tu sai benissimo che per “burocrazia” non si intende soltanto il fatto che ci sono delle leggi che vietano di fare qualcosa nel presente ma che c’è una strutturazione all’interno dei corpi, per citare Foucault, di micro potere che è quello dell’auto repressione.
Quindi dopo alcune generazioni che una certa pratica è vietata, o molto scoraggiata da una legge quella cosa smette di esistere?
Esattamente, come dice David Graeber diventano degli spazi morti nella capacità di immaginare; questo secondo me è la cosa centrale. Credo che saper oziare, sapersi divertire, sapersi aggregare possa essere una cosa rivoluzionaria per poter immaginare dei rituali collettivi. Sarebbe importante, insieme a queste cose, che vengano portate avanti delle campagne di informazione sulle droghe, l’unica cosa a riguardo è educare, sensibilizzare.
Come accadeva in molti dei primi club con feste autorganizzate, in cui oltre a riunirsi per ballare venivano anche fatte campagne di informazione sia sulle droghe che sulle malattie veneree come l’Aids, oltre a diventare luoghi di ritrovo per la comunità Queer. Lo vediamo in molti film, per esempio Paris is Burning. I club hanno svolto un ruolo centrale di aggregazione e aiuto per molte culture marginalizzate che hanno trovato nell’autorganizzazione una “collettività” che fuori non esisteva e un modo libero di esprimersi
Questa è una cosa molto importante e poi ripeto non succede solo nei rave oggi. Penso per esempio a tutto il mondo dei centri sociali in Italia, dove c’è la possibilità di sentirsi liberi di essere quello che si è; quando si va a una festa nei luoghi di mercificazione non è così molto spesso. E poi c’è la questione, secondo me estremamente importante, del riabitare le città spesso legate soltanto alla merce, del comprare del produrre. Mi ricordo quando c’era il tango illegale a Milano in Piazza Affari o nelle vie del centro, per quelle occasioni si ritrovavano centocinquanta persone con un amplificatore a ballavano il tango. Circa quindici anni fa i Gotan Project sono venuti in tournée a Milano e hanno fatto un live set in strada senza permesso. è giusto disobbedire secondo me. Questo significa non soltanto godersi al di fuori della merce l’alleanza dei corpi, vivere lo spazio in modo diverso, significa anche avere potere di immaginazione, che è quello che manca nella nostra società in modo abbastanza grave. Gli antropologi e le antropologhe lavorano sulla necessità che noi abbiamo di ballare, di aggregarci come comunità umane dagli anni 20 del ‘900. Molti come Jean Rouch, Margaret Mead hanno fatto ricerche per tutta la vita sui momenti extra-ordinari, sui rituali collettivi e sulla catarsi della danza. Potremmo definirli rituali medici per curare il corpo sociale. È folle pensare di poter togliere queste espressioni che hanno radici così antiche; infatti, non dobbiamo stupirci se abbiamo voglia di andare a ballare per ore fra altri corpi liberi, ognuno con le proprie modalità.
Katia Mosconi