“Si richiede un cambiamento nell’essenza e nella forma. Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica. È necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo”. Questa frase, contenuta nel Manifiesto Blanco (1946), contiene l’essenza del pensiero di Lucio Fontana (1899-1968), uno dei massimi artisti del Ventesimo secolo, protagonista di un’antologica da non perdere presso la nuova sede romana di Tornabuoni Arte, aperta fino al 15 luglio.
Una rassegna di livello museale, che riunisce trenta opere sceltissime, realizzate in un arco temporale che va dal 1935 al 1968, per documentare la vis innovativa dell’artista, sofisticato sperimentatore e creatore di un mondo dove la materia viene sublimata e si trasforma in un gesto unico, che si fa segno. Negli spazi rarefatti della galleria, affacciata su via Bocca di Leone, si scoprono le opere dell’artista, valorizzati da un allestimento sobrio e minimale, a partire dalle opere in ceramica. Leone (1935-36) è una scultura in terracotta refrattaria dipinta di colore nero, che introduce un capolavoro assoluto: stiamo parlando della Via Crucis (1947) composta da 14 formelle policrome, presentata da Enrico Crispolti alla galleria Niccoli nel 1988. Un’opera talmente forte da suscitare l’entusiasmo di Piero Dorazio, che scrive sulla Gazzetta di Parma: “Fontana fa muovere qui in modo drammatico, non solo il Cristo, ma tutto ciò che lo circonda”. Nella Via Crucis i grumi di colore si trasformano in energia, capace di attivare lo spazio circostante: scintille di fiamme dorate, comprese in una tensione che annulla le figure per trasformarle in visioni astratte, al di là del significato religioso.
“La mia forma plastica dai primi agli ultimi modelli non è mai dissociata dal colore. Le mie sculture sono sempre policrome” diceva Fontana. E il colore è uno dei fil rouge della mostra, a cominciare dal fondo viola dell’Ambiente spaziale (1948), una preziosa gouache su carta, all’azzurro chiaro dell’Anta di Armadio (1952-53) al giallo delle pennellate che animano Concetto spaziale (1957) ai rossi intensi della serie dei tagli, che occupa come un fregio astratto una delle pareti della galleria. Ma il clou dell’intera mostra è Concetto Spaziale, La fine di Dio (1963), la grande tela ovale verde mela segnata da una serie di squarci dall’andamento serpentiforme, presentata da Gillo Dorfles nella mostra “Lucio Fontana. Le ova”, alla galleria dell’Ariete nel giugno del 1963, che il critico definisce come “il simbolo di una divinità sempre presente, sempre fecondante, sempre fecondata”. Un concetto ribadito da Crispolti, che suggerisce come “l’uovo non sia fecondato se non attraverso quel crivellamento del gesto che lo squarcia, che ne rompe la purezza originaria e mitica”.
Summa del Fontana-pensiero, questo capolavoro si apparenta con l’uovo appeso al centro dell’abside nella Pala di Brera (1472) di Piero della Francesca, simbolo del parto miracoloso di Battista Sforza, la moglie di Federico da Montefeltro morta dopo aver dato luce al suo primogenito, Guidobaldo. In quell’ovale si concentra l’energia di un mondo nuovo, destinato a stravolgere per sempre i destini dell’arte, in un decennio caratterizzato dalla forza propulsiva di un’innovazione scientifica e tecnologica che arriverà a portare l’uomo sulla luna, l’anno successivo alla morte dell’artista, che aveva fatto dello “spirito nuovo” il suo motore creativo. Accompagna la mostra un catalogo scientifico pubblicato da Forma, con contributi di Luca Massimo Barbero, Enrico Crispolti, Piero Dorazio e Gillo Dorfles.