24 tagli, verticali, profondi. 2 metri di lunghezza. 1965, la data di creazione. attorno ai 20 milioni di euro, la quotazione dell’opera. Ecco le coordinate del monumentale “Concetto Spaziale. Attese” rosso di Lucio Fontana che la galleria Tornanbuoni Art porta in fiera ad Art Basel 2023 (15-18 giugno, Basilea)
L’enorme tela di Lucio Fontana è firmata e datata. In più è presente sul retro la scritta (entusiastica) “Sono tornato ieri da Venezia, ho visto il film di Antonioni!!!”. A volte queste scritte appaiono sul “lato B” delle tele del maestro dello Spazialismo. Alcune sono pensieri e riflessioni, altre volte solo frasi riguardanti accadimenti di tutti i giorni o sentimenti e ricordi ( “Voglio bene a Teresita”, “Nel 1906 quando arrivai a Milano c’erano i tram a cavalli”, “Aspetto il giardiniere dell’anima”, “Incomincio a essere stanco di pensare”…).
Prezioso il racconto della direttrice di Tornabuoni Parigi, Francesca Piccolboni: “L’opera Concetto Spaziale, Attese del 1965, è un capolavoro assoluto di Lucio Fontana. Sicuramente una delle opere più iconiche di tutta la sua carriera e più in generale dell’arte italiana del dopoguerra.” Che continua: “Si tratta, infatti, di un omaggio di Fontana al cinema, l’opera fa riferimento ad una pietra miliare della storia del cinema italiano, al film Deserto rosso di Michelangelo Antonioni che segnò profondamente la Biennale del Cinema di Venezia nel 1964 e con cui vinse il Leone d’Oro. Sul retro infatti si legge: “Sono tornato ieri da Venezia, ho visto il film di Antonioni!!!”
Prosegue la direttrice: “I 24 tagli si stagliano sulla superficie paralleli e in sequenza regolare come i fotogrammi di una pellicola che si srotolano su una bobina cinematografica. Le incisioni segnando una meravigliosa progressione ritmica su una tela a formato di fregio di eccezionale dimensione di 65×200 cm. Si tratta di una delle opere più grandi realizzate dall’artista, appunto di due metri di lunghezza”
«L’eccitazione di Fontana è ancora palpabile e la scala impressionante del suo straordinario dipinto, che ricorda l’estrema orizzontalità degli schermi cinematografici, acquista ulteriore significato nel contesto della scritta, così come la scelta del rosso da parte dell’artista» scriveva così Olivia Tait nella presentazione di quest’opera che la galleria Hauser & Wirth aveva già esposto nel 2019 proprio ad Art Basel.
Facciamo un passo indietro e contestualizziamo questa scritta del Fontana che oggi, quattro anni dopo, torna a Basilea da Tornabuoni Art. Nell’autunno del 1964, il regista italiano Michelangelo Antonioni aveva cinquantadue anni e non solo stava ridefinendo il panorama del cinema contemporaneo, ma stava trasformando i parametri stessi dell’espressione visiva. Dopo il successo della trilogia di lungometraggi in bianco e nero che interrogava l’alienazione dell’uomo nel mondo moderno — “L’Avventura” (1960), “La Notte” (1961) e “L’Eclisse” (1962) — Antonioni ha realizzato una svolta radicale per la prima volta grazie al colore.
Nel settembre di quell’anno, Antonioni vince il Leone d’oro con “Deserto rosso” al XXV Festival del Cinema di Venezia. In questo film fa un uso profondo dello spettro cromatico: campi intensamente saturi di rosso, giallo e verde perforano il desolato paesaggio industriale di Ravenna, in cui è ambientato il film. Ex pittore in gioventù, Antonioni ha ripreso in mano i pennelli prima di girare “Deserto rosso” per familiarizzare con il colore. Il regista ha paragonato il suo processo cinematografico alla pittura: «In ‘Deserto rosso’ ho dovuto cambiare l’aspetto della realtà: dell’acqua, delle strade, della campagna. Ho dovuto dipingerli con vernice e pennello veri. Non è stato facile…. è come dipingere un film». (Antonioni in Aldo Tassone, a cura di, Parla il Cinema Italiano, Milano, 1979).
Antonioni è stato un grande uomo di cultura, grande appassionato ed esperto d’arte: «Io sono un amante della pittura. È una delle arti che, con l’architettura, vengono per me subito dopo il cinema, come scala di interessi. […] è una cosa che mi appassiona, che mi piace. Quindi, io credo che tutta questa sensibilità io l’abbia un po’ assimilata». È stato, per esempio, un grande fan di Renato Guttuso, di Emilio Vedova, di Emilio Scanavino e di Mark Rothko, di cui è diventato anche collezionista e amico. Il regista nei suoi film non utilizza citazioni e suggestioni desunte dalla pittura, dall’architettura e dal design solo per bellezza, ma le rende parte integrante del proprio linguaggio filmico. Li usa per rendere più potenti le sue storie, i suoi personaggi, i drammi silenziosi dei suoi protagonisti.
Ora, chiusa questa premessa per contestualizzare il periodo storico in cui è stato realizzato il lavoro di Fontana, andiamo avanti con il racconto della nascita dell’opera fatto nella scheda critica realizzata da Sotheby’s nel novembre 2015 in occasione della vendita newyorkese in cui questi 24 tagli sono stati venduti all’asta per 16.154.000 dollari (in linea con le stime pre-asta fatte dagli esperti della maison):
«Diversi mesi dopo, il sessantacinquenne Lucio Fontana si fermò davanti a una tela larga quasi due metri e affondò la sua lama nel vasto vuoto rosso fuoco. Un anno prima di vincere il primo premio alla Biennale di Venezia, Fontana ha portato il suo coltello sulla superficie del presente lavoro proprio all’apice delle sue forze creative. Tagliando la tela dipinta con ventiquattro singoli tagli lungo la sua larghezza panoramica, Fontana si è imbarcato in quello che sarebbe diventato il dipinto più drammatico e culminante della sua carriera: la tela con il maggior numero di tagli di qualsiasi opera della serie dei “Tagli”. Dopo aver inflitto la sua violenza archetipica alla distesa del dipinto, Fontana ha scritto sul retro (in italiano): “Sono tornato ieri da Venezia, ho visto il film di Antonioni!!!” Vedere il film “Deserto rosso” ha lasciato Fontana in uno stato di totale rivelazione, motivandolo a creare il dipinto più elettrizzante e teatrale di tutta la sua opera».
“Concetto Spaziale, Attese” di Lucio Fontana del 1965 è straordinariamente raro nella produzione dell’artista. Non solo è l’unica tela non modificata con ventiquattro tagli, ma non ci sono dipinti nell’intera produzione dell’artista con un maggior numero di incisioni, rendendolo così un ultimo esemplare della massima rarità nel corpus iconico dei dipinti di Fontana.
L’opera è indiscutibilmente cinematografica nella composizione: le lacerazioni di Fontana esplodono sulla superficie da sinistra a destra come fotogrammi discreti che si srotolano su una bobina di film, segnando una progressione ritmica del tempo narrativo in battiti sequenziali.
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