Lo Spazialismo e una serie di ritratti rarefatti e dell’altrove: Lucio Fontana e Y.Z.Kami in due mostre parallele al Museo del Novecento di Firenze
Approdata come un’aliena in una assolata Firenze rovente, sotto la morsa della calura tropicale, attraversata la metafisica Piazza Santa Maria Novella, all’interno dell’antico Spedale delle Leopoldine, c’è il Museo del Novecento, dedicato alle opere del XX secolo, riproposte con cicli di mostre temporanee intelligenti, sovente progettate in collaborazione con altre istituzioni, o musei fiorentini.
La collezione permanente proveniente dalla Collezione Alberto della Ragione (241 opere) rappresentative dell’arte dal 1920 al 1945, è in parte costituita da opere donate dagli artisti e collezionisti in seguito all’appello di Carlo Ludovico Ragghianti di ricostruire il patrimonio artistico e culturale fiorentino, dopo la devastante alluvione del 1966. Nella collezione civica del Novecento spicca il corpus di opere di Ottone Rosai e il lascito Alberto Magnelli e di altri maestri del XX secolo da riscoprire in questo scrigno.
Varcata la soglia del Museo, nel loggiato rinascimentale campeggia l’installazione al neon Everything might be different di Maurizio Nanucci, e al piano terra resta impressa nella memoria visiva la mostra “Light, Gaze, Presence”, una mostra di Y.Z. Kami (fino al 24 settembre 2023), a cura di Sergio Risaliti e Stefania Rispoli, da vedere senza ma e senza se. Questa prima grande mostra fiorentina comprende 24 opere esposte al Museo del Novecento, nel Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, il Museo degli Innocenti e la chiesa di San Miniato al Monte, dell’artista iraniano-americano, nato a Teheran nel 1956, che vive e lavora dagli anni ’80 a New York. Kami ha iniziato a dipingere a cinque anni nello studio della madre, ed è riconoscibile per i suoi ritratti quasi fuori fuoco, immobili e rarefatti, ai limiti della trascendenza, smaterializzati nella diafana luce bianca.
Al piano terra del Museo Novecento catalizzano il nostro sguardo alcuni suoi dipinti della serie Dome e Night Paintings. Nei primi Kami si ispira a immagini archetipe, come il mandala, e alle forme e architetture concentriche tipiche della tradizione persiana e degli edifici sacri di tutto il mondo, mentre le opere della seconda serie evocano visioni notturne, scavando nel profondo dell’anima. Queste opere materializzano apparizioni nate dalle tenebre e sono ispirate alle poesie di W. Blake. Il colore dominante è l’indaco intervallato da macchie bianche che, nel loro effetto sfuocato, sembrano aggrapparsi al presente, figure che si mostrano sulla soglia dell’ imminente sparizione e ci chiedono di essere mantenuti in vita, nell’atto di contemplarli.
Sono dipinti a olio su lino, volti in primo piano, ectoplasmatiche presenze di luce immobilizzate dal silenzio. Ritratti di donne e di uomini colti in primo piano sovente ritratti a occhi chiusi, ci appaiono sospesi nel tempo e nello spazio, così ascetici e misteriosi, rimandano a un altrove indefinibile dalla intensa luminosità rarefatta che hanno il potere di astrarci dal “rumore” della nostra cinica società globale, bulimica di tutto e di tutti, esperienze e incontri senza però approfondire niente.
Kami, è pittore dell’invisibilità, un ascetico precursore del silenzio, di un’arte come forma di meditazione e contemplazione, un compagno ideale di ricerca di Roman Opalka (1931-2011), entrambi attratti dall’idea di espandere un’esistenza nello spazio-tempo, oltre la contingenza del quotidiano. I suoi ritratti realizzati sulla traccia di fotografie scattate ad amici o sconosciuti, prima devono sedimentare nella memoria di Kami, poi vengono alla luce a distanza di anni e sono carichi di riferimenti di storia dell’arte e storia della fotografia , intrise di testi sacri e di filosofia, che l’artista ha studiato alla Sorbone di Parigi. Le sue opere s’inscrivono nell’universale e ci indicano una strada di pittura meditativa che dilata l’esistenza oltre i limiti mortali.
La sensazione di estensione spazio-temporale continua al primo e secondo piano del Museo Novecento, dove mi sono immersa nella mostra ben allestita “L’Origine du Monde” (fino al 13 settembre 2023), dedicata Lucio Fontana (Rosario 1899 – Comabbio 1968), l’inventore dello Spazialismo e padre della Light art italiana, incentrata sulle forze primigenie del manifestarsi della vita sulla terra e nel cormo, e della stessa creazione artistica. Il titolo evoca l’opera considerata scandalosa nel 1866 di Gustave Courbet, propone una lettura nuova dell’opera di Fontana, basata sulla forza rigenerativa femminile, per l’artista presente nella natura, nel cosmo e nel corpo fecondo della Terra, in cui i suoi buchi e tagli sono segni grafici, gesti primari, pulsioni istintuale dalla misteriosa tensione erotica. La mostra raccoglie una mirata selezione di disegni e piccole sculture che aprono riflessioni sulla genesi degli Ambienti Spaziali e delle Nature. E in questa esplorazione in bilico tra Terra con i suoi ammassi di materia compatta e carica di energia primaria e la Luna, con perforazioni in forma di spirali e vortici, noi argonauti possiamo attraversare con lo sguardo micro e macrocosmi in cui le forze ctonie primarie irrazionali, culminano nella creazione di cosmologie e cosmogonie immaginarie. Fontana oltrepassa i limiti fisici e concettuali, superando i limiti delle tecniche tradizionali per aprirsi a nuovi linguaggi artistici concettuali in cui la ricerca della nascita del mondo e la tensione verso il futuro, coincidono nel gesto artistico dove l’impossibile è visibile.