Si rimane per un momento interdetti quando l’inquadratura stacca dal viso di Priscilla Presley che, al volante della sua macchina, si lascia alle spalle la vita che così fortemente aveva desiderato per dare spazio ai titoli di coda: l’impressione è quella di aver assistito a un film che avrebbe potuto spingere maggiormente il piede sull’acceleratore ma che ha scelto, legittimamente, di non farlo.
Priscilla (2023), il film di Sofia Coppola presentato in concorso all’80esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, racconta la storia dell’adolescente Priscilla Banlieu (Cailee Spaeny) che, quattordicenne, nel 1959 incontrò a Wiesbaden, in Germania, Elvis Presley (Jacob Elordi). All’epoca il già ventiquattrenne cantante e attore originario di Tupelo, Mississippi, stava svolgendo il servizio militare fra le truppe di occupazione che stazionarono nel territorio tedesco per più di un ventennio dopo la fine della seconda guerra mondiale. La celebrità, per lui, era già largamente arrivata: basti pensare che nel 1957, quando giunse la chiamata alle armi, Elvis stava partecipando come attore protagonista alla lavorazione del film La via del male di Micheal Curtiz, autore, fra gli altri, di una pietra miliare del cinema come Casablanca (1942).
La sceneggiatura risulta fluida quanto composta ed essenziale: la storia d’amore – questo il nucleo del film – che presto nasce tra i due protagonisti è raccontata con naturalezza, sia nelle luci che nelle (tante) ombre: se da un lato Priscilla si ritrova nella posizione che ogni donna desidera, quella a fianco di Elvis, dall’altro il loro rapporto viene tenuto completamente segreto per lunghissimo tempo. Le criticità di un rapporto che ha permesso a Priscilla di avere tutto ma che al tempo stesso l’ha privata della libertà emergono a più riprese, dagli sfoghi isterici di Elvis al divieto di sfoggiare abiti o comportamenti che non siano stati da lui approvati. A Priscilla, se vuole continuare la sua permanenza nella gabbia dorata in cui si è chiusa in nome dell’amore per Elvis, è richiesto di esserci sempre per lui senza fare domande, a dispetto degli innumerevoli gossip che lo vedono accostato sentimentalmente a Nancy Sinatra o ad altre star del momento.
Un pregio di questo film – tratto dal mémoire di Priscilla Presley Elvis and Me, scritto in collaborazione con Sandra Harmon –, insieme alla delicatezza con cui punta i riflettori sulla vita di Priscilla – soffice come le moquette che sembrano rivestire qualsiasi superficie di Graceland, la dimora di Elvis, dai pavimenti fino alle bilance pesa-persone – è quello di tratteggiare solo in parte la figura di Elvis: di lui emergono il dolore per aver preso prematuramente la madre – di cui forse cerca un sostituto affettivo nella giovane Priscilla –, la sua capacità di affabulazione – lo si vede mentre evangelizza, Bibbia alla mano, un manipolo di persone – e la crescente dipendenza da eccitanti e anti-depressivi. Della sua figura pubblica non traspare quasi nulla, lasciando più spazio possibile al rapporto con Priscilla: la figura stessa di Elvis compare solo a momenti alterni, costringendo la consorte ad affrontare lunghi periodi di solitudine e smarrimento.
Le prove attoriali sono ben calibrate, anche se prive di particolari guizzi: è questa forse la caratteristica che più stupisce di Priscilla: la capacità di mettere in scena una storia d’amore unica nel suo genere rappresentandola come una vicenda comune e, di conseguenza, universale. Priscilla è sola quanto lo è Elvis, nonostante la sua carriera sfolgorante e le sue continue relazioni con altre donne possano far pensare diversamente. Ed è in questa solitudine di fondo che lo spettatore può riconoscersi maggiormente: abituati come siamo, nel buio della sala o alla luce dei nostri salotti, a continui e a tratti esasperati colpi di scena: l’assenza di particolari picchi emotivi nel film di Coppola può risultare quasi indigesta per lo spettatore.
Priscilla non è il miglior film di una regista che nella sua carriera ci ha offerto ritratti femminili indimenticabili, da Charlotte (Scarlett Johansson) di Lost in Translation (2003) a Maria Antonietta (Kirsten Dunst) in Marie Antoinette (2006). Ciononostante, il film ha il merito di mostrare in modo quasi didascalico tutto ciò che vuole raccontare, senza lasciare spazio a interpretazioni di significati ulteriori che qui non esistono. Priscilla è prima di tutto rappresentazione di una storia d’amore e delle illusioni che inevitabilmente essa si porta dietro. Forse non è quello che il pubblico si sarebbe aspettato da un’autrice del calibro di Coppola, ma tant’è: che si entri a Graceland o in una sala cinematografica, non sempre le cose vanno come immagineremmo.