Omaggio a Vattimo, il grande filosofo teorizzatore del pensiero debole scomparso all’età di 87 anni all’ospedale di Rivoli
Gianni Vattimo si è spento all’età di 87 anni all’ospedale di Rivoli. La sua storia, costellata da scandali e successi, è legata a un libro pubblicato da Feltrinelli nel 1983, Il pensiero debole. Un libro che è diventato un classico della cultura post-moderna. Il mio ricordo di Vattimo è legato alla figura di un altro filosofo, suo amico e corrispondente, Mario Perniola. Perniola mi introdusse alla lettura di Vattimo e alla contestualizzazione del pensiero debole. Più tardi ritrovai quelle tesi nei racconti di Alessandro dal Lago che, insieme a Pier Aldo Rovatti, vide nascere questa posizione cardine del pensiero postmoderno. Incentrata sul superamento delle metafisiche esistenziali, la critica di Vattimo fonda un’ermeneutica sulla contestazione dell’inamovibile concetto di un essere caratterizzato da una razionalità sempre uguale nel tempo e con una missione progressiva nella storia.
Qui, invece, si scorgeva una razionalità contingente dominata dalla comunicazione che frammenta e moltiplica il pensiero. Dando legittimità non ad un unico progetto di realizzazione dell’umanità ritenuto vero e a scapito di altre verità, ma a tutte quelle individualità prodotte della contingenza e destinate a una durata minore, persino riferite a una realtà specifica. Il vero nemico del pensiero debole è stato, quindi, proprio il tradizionalismo inteso come condizione permanente di unicità ideologico interpretativa. Questa mossa Vattimo l’ha potuta fare confrontandosi con il pensiero di Nietzsche prima e di Heidegger poi e, infine, con Hans Georg Gadamer. Vattimo, sebbene si muova nella logica del contrasto tra un’idea di verità compromessa con la realtà e un’idea di verità frutto delle interpretazioni, analizza la funzione storica del linguaggio, che resta un punto di riferimento.
Rifondazione dell’originale
Per comprendere l’arte nell’estetica contemporanea, Vattimo ha insistito sulla centralità del percorso interpretativo. E ci fece seguire un itinerario critico che cerca agganci anche con teorie sociopolitiche. La riduzione dei fatti a eventi, significava per Vattimo predisporli alle interpretazioni, senza che esse facessero di nuovo riferimento a un’oggettività indipendente ed esterna. Ma invece, al contrario, spingendole lontano da un’omologazione raffinata dalle tecniche seduttive della comunicazione di massa. Così, anche l’opera d’arte rimarrebbe aperta alle interpretazioni senza compromettere la sua singolarità. Ogni sguardo conterrebbe, infatti, nell’interpretazione, una rifondazione dell’originale.
Nel campo dell’estetica può risultare interessante riflettere oggi su quello scontro tra Vattimo e Ferraris, ossia tra pensiero debole e nuovo realismo, nella misura in cui il primo polemizzava col secondo scorgendovi una deriva assolutista e populisticamente riduttiva. Il pensiero sull’arte di Vattimo, dedotto dalla teoria della formatività di Luigi Pareyson, m’è stato trasmesso dalla figura di Eugenio Battisti che nei primi anni Sessanta in solidarietà con Umberto Eco aveva costruito quel percorso interpretativo che mi portò a conoscere il filosofo torinese, il quale anche se considerava Eco meno intelligente di lui di Pareyson era stato anche lui allievo. Continuando questo percorso ho incontrato quei giovani filosofi come Davide dal Sasso che sono pensatori della crisi.
Tra esperienza e conoscenza
Anche i più giovani indicano l’Opera di Vattimo come il varco aperto tra le seduzioni neo-strutturaliste, neo-fenomenologiche e quelle di un razionalismo problematico. Appassionandosi nuovamente allo squilibrio tra esperienza e conoscenza. Vattimo, infatti, indicava un’azione di decentramento del soggetto e di concentrazione sulle apparenze che riteneva sede primaria dell’esperienza, un luogo dove l’interpretazione coltivava il confronto tra l’essere e il linguaggio. Un confronto mobile, perché finalizzato alla ricerca di potenziali movimenti. Questo presupposto di instabilità, opportuno in un mondo in continua trasformazione, dominato da incertezze e mutamenti apre due vie. La prima segue il nesso tra verità e interpretazione, la seconda quello tra trasformazione e decentramento del soggetto.
In altre parole, la ragione per la quale è da ritenersi ancora valido oggi quel testo del 1983, sta nella sua applicabilità al sentire contemporaneo in cui proprio il policentrismo, lo sguardo decolonizzato e senza vizi di genere, sollecita a un rinnovo continuo di prospettive e a una fluidità di giudizio. Sicché, come non esiste più una storia dell’arte, ma storie, non esiste nemmeno una direzione univocamente progressiva. Bensì lo smottamento continuo di certezze che creano sempre nuovi piani d’appoggio. Una molteplicità che invece di far perdere validità a valori universali, crea la possibilità di accesso ad essi ad individui che, un tempo, non avevano la benché minima possibilità di contemplarli. Anche per questo ricordiamo Gianni Vattimo come un grande filosofo del nostro tempo.