La “contemplazione” sta alla base del lavoro di uno scultore e ne determina in larga parte le scelte formali. Ne abbiamo parlato con Reinhard Pfingst in questa ventiquattresima puntata di progetto (s)cultura.
Come e quando hai iniziato a dedicarti alla scultura, cosa è stato determinante?
Gli elementi determinanti, penso siano stati tre. Quando ero ancora un piccolo bambino mio padre, tenendomi per mano, mi portò a visitare il Duomo di Colonia; la sua famiglia infatti era della Renania. La ritmata bellezza dell’enorme spazio in cui entrammo mi impressionò così profondamente da farmi diventare un precoce appassionato di architettura, soprattutto di quella sacra che non ha fini pratici. Sempre da bimbo, poi, quando andai per la prima volta dai nonni materni in Giappone, rimasi incantato dalla grande cura dell’estetica che i giapponesi dedicano a moltissimi aspetti della loro vita. Da adolescente, infine, quando venni a Roma per la prima volta, e in San Pietro sostai a lungo davanti alla Pietà, davvero molto a lungo, capii intuitivamente che cosa fosse un capolavoro d’arte e quanto fosse importante per la sensibilità umana. Sono convinto che queste esperienze siano la vera base delle mie future scelte. Per la cronaca invece, diciamo così, da studente di architettura ad un certo punto compresi che quel che più mi appassionava era la poeticità dei volumi, e ciò mi ha in seguito portato con naturalezza verso la scultura, e poi soprattutto verso la scultura astratta. Ero cresciuto ad Amburgo, dove fin da ragazzo avevo disegnato e dipinto senza però mai pensare alla scultura, credo per la mancanza di percepibile plasticità della realtà sotto la fioca luce nordica, ma quando feci quella scelta vivevo già a Roma e il passaggio è stato facile.
Come è avvenuta la tua formazione?
Ha avuto luogo nella polvere dei laboratori romani, laboratori di ogni tipo e livello, nell’anonimato, in una certa solitudine. Volevo così, non mi fidavo della gaia atmosfera artistica degli studenti dell’accademia, volevo scoprire la realtà lavorativa vera, le sue durezze, i suoi trucchi, anche le sue meschinità. Poi, da immigrato straniero, mi premeva conoscere la vita dei lavoratori romani, non mi accontentavo dell’immagine patinata di Roma, spettacolare, meravigliosa, ma fatta per i turisti e non per chi ci deve vivere e sopravvivere. È così che mi sono affezionato alla città. Ad ogni modo, mi sto formando ancora ogni giorno. La formazione di chi si dedica all’arte penso che non finisca mai.
La scultura non è comunque la tua unica forma di espressione. Recentemente hai dato alle stampe anche un romanzo.
Pubblicai una novella per dire delle cose che non si prestavano ad un’interpretazione visiva, e ho diverse idee in testa per altri racconti. Tuttavia, scrivo soprattutto per diletto e non avrei l’ardire di considerarmi un vero scrittore.
Paragoni sovente la scultura alla musica. Che cosa unisce queste due discipline così apparentemente diverse, a cominciare dal medium cui si affidano?
Tutte le forme d’arte parlano all’animo umano con i propri mezzi. L’essere accolte dall’animo le unisce. L’analogia tra il sonoro e il visivo, del resto, è nota fin dall’antichità. I Greci si servivano degli intervalli musicali per il ritmo degli elementi architettonici presenti nei templi. Io di questa corrispondenza mi sono accorto attraverso lo studio della scultura. Un panneggio ben fatto, per esempio, rimanda sensazioni sonore insieme all’impatto visivo. Mi sono reso conto che, soprattutto nell’opera astratta libera da esigenze mimetiche, potevo lavorare con questo parallelismo per ottenere delle armonie, servendomi però di mezzi prettamente scultorei, senza adattamenti di principi musicali, che tra l’altro non conosco nemmeno. Solo dopo ho notato che già diversi artisti avanguardisti avevano riflettuto su queste affinità. Ho scoperto tutto lavorando, non mi sono inventato prima una teoria a parte in base alla quale fare in seguito delle sculture. Osservando con una mente libera, comunque, viene naturale riscontrare le profonde analogie tra le diverse forme di espressione artistica.
La stessa libertà la ritrovo nel tuo praticare, indifferentemente, astrazione e figura. Con una preferenza per la prima?
L’arte per me è come un grande fiume in cui gli artisti navigano ognuno a bordo della fragile barca della propria ispirazione. Io mi dedico prevalentemente alla forma astratta perché mi affascina. Non ci sono altri motivi davvero determinanti. Me li potrei inventare a posteriori, però sarebbe una falsificazione, una debolezza. Come artista mi dedico a ciò che mi appassiona, perché la passione mi dà la necessaria energia, la responsabilità culturale sta nel volerlo fare bene. Non c’è il giusto o lo sbagliato nella scelta artistica. Infatti, penso a volte che mi piacerebbe affrontare anche una ricerca più tradizionalmente figurativa o qualcos’altro ancora, e magari un giorno lo farò. Ma non si possono seguire troppe passioni. Le passioni sono esigenti e gelose.
Uno scultore del secolo scorso, Carmelo Cappello, realizzò negli anni giovanili un nudo seduto, appoggiato a un bastone, intento a fissare le stelle: la statua si intitolava Contemplazione. Che cosa ha a che spartire con la tua arte un tale atteggiamento di sospensione e di ricerca?
Non conoscevo quest’opera. Ma documentandomi ho visto che Carmelo Cappello ha in seguito realizzato delle sculture astratte pregevoli, e mi piace immaginare che si siano formate nella mente della figura che guarda e contempla le stelle. Questo mi è molto affine, la contemplazione sta alla base del mio lavoro e ne determina largamente le scelte formali.
La tua scultura ricorda molto certa arte novecentesca, organica e astratta. Chi sono i tuoi maestri?
Sono e restano sempre i grandi del passato che non smettono mai di insegnare, anche quando stile, tematica e linguaggio dei lavori sono molto cambiati. Tra i novecenteschi posso nominare Henry Moore, Jean Arp, Pietro Consagra, Alberto Viani, ma forse più ancora degli architetti latino-americani come Oscar Niemeyer e Luìs Barragàn, o il pittore e scultore Mathias Goeritz, che realizzò insieme allo stesso Barragàn dei progetti in Messico. L’architetto Lucio Costa, che invece collaborò con Niemeyer, una volta disse a proposito dell’architettura brasiliana che essa “è riuscita ad aggiungere ciò che ancora mancava all’architettura moderna, vale a dire la grazia”. In questo ideale posso riconoscermi come scultore, cercando di aggiungere qualcosa di valido in tale direzione.
E tra i contemporanei?
Non voglio sembrare arrogante ma tra i contemporanei non vedo molti che in questo momento vadano nella mia direzione. Ci sono, anche e soprattutto tra i giovani e giovanissimi, diversi artisti eccellenti, ma fanno altro. Io sono affascinato dagli artisti che lavorano in modo del tutto diverso da me, perché mi sorprendono, mi fanno vedere cose che mai farei né mi verrebbero in mente. Questo è stimolante. Nel complesso, comunque, mi considero come una sorta di outsider nel panorama attuale.
Parliamo un po’ del processo. Sei lento o veloce?
Rispetto ai diffusi ritmi super-velocizzati del momento sono decisamente lento. È una conseguenza delle forme, dei volumi e degli spazi contemplativi su cui lavoro. Devo essere riflessivo e questo è incompatibile con ogni sorta di fretta. Quel che conta è la qualità del risultato finale, e i tempi giusti per ottenerlo vanno compresi e rispettati. Come la maturazione di un buon distillato. Un brandy invecchiato di dodici anni non è tale dopo dieci mesi. Io, tuttavia, non sono contro la velocità in sé, sono infatti un appassionato di gare automobilistiche, solo che il continuo risparmiare sul tempo cozza contro il mio specifico lavoro di scultore. Eppure anch’io ho bisogno di momenti in cui correre. Realizzo ciclicamente degli studi grafici e pittorici, con grande rapidità di esecuzione, completamente d’istinto, per sfogarmi, per dedicarmi poi con la necessaria calma ai progetti più contemplativi. Tornando al discorso del laboratorio, rimane comunque importante saper essere pure veloci quando determinati lavori, commissionati o personali, lo richiedono. Anche perché saper lavorare con un buon ritmo è la prima risorsa per disporre di spazi temporali dedicati alla riflessione su quel che si sta facendo.
Quanto conta la materia nell’individuazione della forma?
La materia può suggerire la forma mentre a sua volta la visione della forma può chiamare la materia. È un processo interdipendente libero che, dal punto di vista artistico, non può essere incastrato in delle regole. Le regole sono importanti per l’esecuzione, per gli aspetti pratici.
Ti capita di cambiare idea in corso d’opera?
Lascio spesso aperta fin dall’inizio questa possibilità. Da diverso tempo progetto di frequente in modo da prevedere ampi margini di variazione. Faccio questo anche considerando che la progettazione, con l’avvento delle tecniche digitali, ha fatto talmente tanti progressi da rendere particolarmente affascinante e significativo per la stessa creatività umana il semi-progettato, il lasciare sempre spazio alle variazioni mediante l’intervento diretto sull’opera.
Qual è il tuo rapporto con l’errore?
È molto importante saper individuare quel che chiamo, con un ossimoro intenzionale, “l’errore giusto”. La perfezione tende a uccidere la vitalità dell’opera. È l’insieme degli errori giusti a conferirle carattere, grazia e bellezza, come le mille imperfezioni del volto umano rispetto allo schema anatomico. Ciò naturalmente non deve aprire la strada all’approssimazione e alla sciatteria. Ci vuole una certa esperienza per lavorare con l’errore giusto.
E al pubblico, come ti relazioni?
Temo che ti dovrò rispondere tra un paio di anni. Vengo da un lungo periodo difficile, per tutta una serie di motivi, che mi ha quasi del tutto impedito l’attività espositiva e quindi il rapporto con il pubblico. Rapporto che proprio in questi ultimi tempi è cambiato tantissimo in seguito all’affermazione dei social e della comunicazione digitale in genere, con l’ibridazione degli individui e dei gruppi umani, composti ormai in modo inestricabile sia di esistenza fisica sia di apparenza virtuale. Devo ancora prendere le misure di questa nuova realtà, trovare una mia interpretazione personale di questo avvenimento epocale.
C’è una tua opera o una tua mostra cui ti senti particolarmente legato?
Io guardo sempre avanti. Quel che è stato e fatto, bello o brutto che sia, mi serve per migliorarmi.
A cosa ti stai dedicando a cosa ti dedicherai?
Alle valide collaborazioni e alle amicizie vere. In quest’ottica sto preparando delle nuove mostre per il prossimo futuro. Non ho ancora le date, quindi mi scuso se oggi non posso risponderti con la dovuta precisione.