Il Musée Fabre di Montpellier dedica a Germaine Richier (1902-1959) l’intero spazio espositivo temporaneo, con una mostra visitabile fino al 5 novembre 2023.
Un ritorno alle origini per l’artista cresciuta alla periferia della città dove mosse i primi passi della sua formazione all’Ecole des Beaux Arts di Montpellier. La retrospettiva, curata da Maud Marron-Wojewodzki, assume in pieno il suo significato nella regione dell’Occitania, profondamente legata ai paesaggi, alla flora e alla fauna che hanno nutrito l’immaginario dell’artista.
Attraverso una raccolta di quasi 200 opere fra sculture, incisioni, disegni e dipinti che illustrano le diverse fasi della sua carriera, la mostra offre un nuovo sguardo sull’artista di fama internazionale, prima donna a esporre durante la sua vita al Musée National d’Art Moderne nel 1956. Grazie al supporto degli eredi, all’accesso agli archivi inediti e all’interesse di istituzioni nazionali e internazionali, il percorso mette in luce la straordinaria inventiva plastica e il potere simbolico dell’artista, aprendo la sua arte a nuove letture.
Germaine Richier nasce a Grans, un paese nel sud della Francia, nel 1902, due anni dopo si trasferisce con la famiglia a Castelnau-le Lez. Inizia la sua formazione nel 1921 nello studio di Louis Guigues, ex praticante di Auguste Rodin, all’École des Beaux-Arts di Montpellier, in quello che oggi è il piano terra del Musée Fabre. Prosegue gli studi a Parigi alla scuola di eleganza formale di Antoine Bourdelle fino al 1929, anno in cui sposerà lo scultore Otto Banninger. Nel ’34 la prima mostra alla galleria Max Kaganovitch di Parigi. Sono gli anni dell’apprendistato sui tradizionali temi neo-classici, che nel ’36 le valgono il premio Blumenthal. Ma questa statuaria di un naturalismo apparentemente perfetto corrisponde solo in parte al suo temperamento. È la calma che precede la tempesta.
La dichiarazione di guerra la coglie a Zurigo, dove decide di restare e tiene dei corsi che conoscono un grande successo. A partire dal 1940 traduce nel suo lavoro il disagio di fronte alla guerra, la visione tragica di una società in decomposizione. Plasma uomini e animali informi, pietrificati, creature fantastiche di un’epoca indefinibile. Il conflitto rivoluziona il suo modo di esprimersi. La sua opera comincia a muoversi sulla linea di una ricerca intensa ed esigente: è il periodo in cui sviluppa un naturalismo non privo di una vena surrealista sulla scia di Giacometti e vicino alle problematiche informali. Tra le opere di questa fase ci sono La Mante grande, bronzo del ’46, e L’araignée, che rappresenta forme di vita ibride, caratterizzate dalla presenza di fili tesi e incrociati che tendono a prolungare l’opera nello spazio. Si sta delineando uno dei temi dominanti della sua scultura, la metamorfosi, che permette all’artista di accentuare la tensione dinamica che caratterizza il suo stile.
In mostra sfilano così busti, ritratti, figure dagli occhi smarriti e dalle braccia scarnificate e tremanti che sembrano usciti da un disastro nucleare. L’artista plasma, incide, graffia, corrode, usa il colore, incastra legni e vetri colorati con una straordinaria inventiva plastica, dovuta alla libera reinterpretazione degli elementi tipici della flora e della fauna della sua terra natale (L’uomo-foresta, La donna insetto, La mantide).
Pezzo forte della mostra è il Christ d’Assy, un “Cristo di terra, di legno e di convincimento” secondo la definizione della stessa artista, commissionato a Richier dal canonico Jean Devémy nel 1950 per il Coro della Chiesa di Notre-Dame-de-Tout-Grâce, sull’altopiano di Assy in Alta Savoia. L’artista modella un Cristo-uomo morente, che fa tutt’uno con la Croce, scorticato, tumefatto, essenziale, assoluto, dove il bronzo brunito con le sue note dorate racconta l’ascesi dello spirito mentre la materia tormentata ne ricorda il martirio. La rappresentazione di Cristo viene giudicata blasfema non dagli ammalati per cui era stato progettato, ma da gruppi cattolici tradizionalisti che gridano allo scandalo. Viene prima estromessa dalla chiesa, per poi essere ricollocata in una cappella laterale. A difendere l’opera André Malraux, che la indica “come il solo Cristo moderno davanti al quale si possa pregare”. Nel 1969 il Cristo di Assy ritorna dietro l’altare maggiore, dieci anni dopo la scomparsa dell’artista.
Nel complesso della sua pratica, Richier ha cercato di riunire, fondere e unificare discordanze e ibridazioni dell’umano con il mondo animale, minerale, vegetali. Lo ha fatto per mezzo di una materia tormentata, scabra, consunta; servendosi di materiali come il bronzo, il gesso e il vetro colorato. Nelle sue tipiche forme allungate e corrose ha concentrato mondi diversi in un tentativo allucinato di rappresentare l’invisibile, l’inconoscibile. Con la realtà come fonte d’ispirazione primaria, l’artista ha però provato a reinventarla in forme nuove, metamorfizzate.
Come in L’ouragane ’48-49, l’Orage, Le Pentacle ’54, l’Hydre ’54: bronzi tragici e massicci che rappresentano con la loro pesantezza il momento della caduta degli ideali, frantumati da una guerra che ha distrutto certezze e speranze. Ma questi corpi sono “solidamente ancorati alla terra, come se il loro peso fosse una garanzia definitiva a tutte le burrasche del vento e della vita, esistono alla maniera degli alberi, autonomi, fragili ed eterni”. Scultrice-poeta come lo saranno Arp, Moore, Brancusi, per Richier la sua ricerca rimarrà un approdo disperato e solitario, spoglio di ogni carattere celebrativo. La morte la coglierà all’improvviso, con l’ultima opera maggiore terminata qualche mese prima di morire, La grande Scacchiera ’59, felice sintesi di tutta la sua attività creativa.
Al termine della mostra, Germaine Richier rimarrà in esposizione nella sala permanente che il Musée Fabre di Montpellier le ha dedicato. L’artista è infatti presente nell’istituzione dal 1938, quando l’allora direttore Louis Guigues acquistò Il Loretto (1934). Seguirono gli acquisti nel 1996 de Il pipistrello (1946), nel 2007 de Lo Schermitore (1943) e Il ragno (1946).