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L’arte del modellamento tra inconscio e ricordo. Intervista a Guglielmo Maggini

Guglielmo Maggini, Installation View Contrappunti, 2024, z2o Sara Zanin, foto Dario Lasagni Guglielmo Maggini, Installation View Contrappunti, 2024, z2o Sara Zanin, foto Dario Lasagni
Guglielmo Maggini, Installation View Contrappunti, 2024, z2o Sara Zanin, foto Dario Lasagni
Guglielmo Maggini, Installation View Contrappunti, 2024, z2o Sara Zanin, foto Dario Lasagni

Intervista al giovane artista Guglielmo Maggini, vincitore del bando “Per chi Crea” finanziato dalla SIAE e realizzato al MIC di Faenza

Sulla scalinata d’ingresso del MIC – Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, il giovane e poliedrico artista Guglielmo Maggini (Roma, 1992), è stato invitato a realizzare un intervento site specific, in dialogo con il Cretto di Burri. Dopo aver vinto il bando “Per chi Crea” finanziato dalla SIAE, inizierà, con la primavera di quest’anno, un intervento scultoreo conturbante, che sarà presentato ad ottobre in occasione delle Giornate del Contemporaneo. L’artista, rappresentato dalla Z2o Gallery di Sara Zanin, ci racconta del suo progetto, della sua poetica, delle sue idee sull’arte e della sua ricerca in continua metamorfosi.

“Stairing” è il titolo dell’opera che ingloberà per tua mano la scalinata del Mic in un bellissimo dialogo con Burri. Di cosa si tratta?
Il bando “Per chi crea”, che mi permetterà di realizzare questo intervento, mi è stato proposto dalla direttrice del MiC, Claudia Casali. Lo scorso anno sono risultato tra i finalisti con un’opera che già poneva in luce un aspetto importante del mio lavoro: quello di mettere in dialogo mondi lontani e con essi anche materiali che sembrano essere lontani, come la ceramica e la plastica. Il titolo del progetto “Stearing” è un gioco di parole. Da una parte rimanda all’azione di “guardare, fissare” la grande imponente presenza del maestro Burri e tutto il suo linguaggio, dal quale sono profondamente influenzato. Dall’altra “stear” indica il moto della scala, quell’elemento organico ed elastico tra volumi, quella tensione che porta gli spazi ad essere in collegamento. Un significato che sottolinea molto bene ciò che è alla base del mio lavoro, ossia mettere in dialogo parti e materiali. “Stearing” vuole mettere un accento sul rapporto che c’è tra la ceramica e lo spazio architettonico e installativo. L’opera accoglierà il visitatore in un’interazione diretta, fisica, sensibile, con il materiale plastico. La maiolica astratta con la quale rivestirò porzioni della scalinata si fonderanno con la resina, un medium utilizzato per le pavimentazioni contemporanee, come la maiolica lo era a suo tempo. Quello che mi propongo è di creare una simbiosi tra materie provenienti da epoche diverse.

Mi spiegavi che il progetto “Stairing” ha anche a che fare con l’“Unheimlich”, dunque con la categoria estetica del Perturbante, prediletta dall’arte contemporanea. Perché, secondo te, l’incontro/scontro con l’alterità, con il rimosso, con il “dilettoso orrore”(E. Burke) è così centrale oggi?
Giacinto Cerone, che è per me un altro grande maestro, intendeva la scultura e la modellazione della materia come un incidente, un elemento di rottura. E, se guardiamo al lavoro di Burri, l’incidentalità della materia ha a che fare con una forza emotiva, preverbale, legata al linguaggio dell’inconscio e dunque anche al rimosso. Quanto al mio fare artistico mi piace pensare all’argilla come a un terreno dove le azioni e l’attimo lasciano un segno che riemerge. Spesso quando mi trovo a modellare la resina, per una questione di tempistiche, l’istante mi permette di tirar fuori delle cose come un lapsus, cose dalle quali io stesso rimango sorpreso. È un processo a posteriori ed è così che il rimosso diventa familiare. Credo fortemente che non ci sia nulla di nuovo tranne ciò che abbiamo dimenticato e credo che l’Unheimlich abbia molto a che fare con il panorama contemporaneo. Perché riprende tutto ciò che è obliato, qualcosa con il quale un artista contemporaneo deve per forza fare i conti.

C’è una frase di Victor Hugo che durante la nostra conversazione mi hai citato: “Solleva la natura, Dio è sotto”. In che relazione poni queste parole con il tuo lavoro?
Il mio lavoro è più che spirituale molto empirico, fisico, a volte proprio sensuale. Nell’idea di “sollevare la natura” ci vedo come una forza emotiva che tira fuori il substrato, il subconscio, dentro il quale c’è Dio in forma di meraviglia. Aristotele diceva: “mi meraviglio quindi sono”. Attraverso la meraviglia, la fantasmagoria barocca, il linguaggio della natura come alfabeto originario, arriviamo a sollevare qualcosa e a portare noi e la nostra percezione a qualcosa di ulteriore.

Le tue opere oscillano da sempre tra scultura e installazione in un’indagine continua di forme, consistenze e volumi. Quali sono i primi materiali con cui ti sei misurato e come si è evoluta la tua ricerca materica?
Alla base del mio lavoro c’è sempre un discorso che parte da una costrizione dello spazio nella materia e dalla materia. Il primo materiale al quale mi sono avvicinato fin da bambino è stato l’argilla, poi mi sono misurato con la cera. In seguito, studiando architettura ho riutilizzato spesso l’argilla per fare dei modelli, studiare lo spazio e i volumi. Successivamente sono arrivate le plastiche intese come polimeri, quindi le resine, le gomme, i poliuretani espansi e nello specifico il memory foam, che è alla base del nostro riposo. Si tratta di materiali che hanno tutti in comune un cambio di stato. C’è sempre, in essi, un senso di trasmigrazione, un’evoluzione che mi ricorda un po’ il movimento che abbiamo nella vita. Mi permettono di vedere, in piccola scala, quello che è un indurimento, un raffreddamento, un qualcosa che di flessibile si perde… Queste materie sono metafora e specchio di ciò che vivo.

 

Gugliemo Maggini, Calice della fertilità, 2023, ceramica, palloncini stabilizzati, resina poliuretanica
Gugliemo Maggini, Calice della fertilità, 2023, ceramica, palloncini stabilizzati, resina poliuretanica

Sabato 16 marzo è inaugurata la prima mostra della nuova sede di Z2o Gallery di Sara Zanin a Testaccio, con una ricca collettiva che comprende anche una tua nuova opera. Su cosa hai lavorato?
La materia con la quale mi sono confrontato per questa opportunità espositiva ha a che fare sia con il nuovo spazio espositivo, che è bellissimo, sia con la vocazione del quartiere che lo accoglie. Infatti, non lontano dalla Z2o, sorgeva il famoso monte dei cocci, formatosi nel tempo grazie alle anfore che venivano gettate e si impilavano le une sulle altre, creando una nuova forma naturale. Qui ritorna il concetto di meraviglia. Il mio è stato un ragionamento inverso a quello che ha portato alla formazione di quel monte. Ho creato quest’opera dal titolo “Stele dei cocci” che racconta la storia del mio rapporto con la materia ceramica che si stratifica in una stele. Una scultura fatta di volumi contenitivi impilati come anfore, che si appropriano di una nuova vita. Ho cercato di portare nel presente questa dinamica anche grazie alla resina, che mi permette di rompere le geometrie del forno di cottura e far rivivere il materiale.

Dal 2006 la Z2o Gallery di Sara Zanin partecipa allo scenario culturale romano con uno sguardo rivolto verso la tradizione artistica italiana, ma anche con un’apertura verso i giovani artisti di talento. Come e quando è nata la vostra collaborazione?
Con Sara lavoro ormai da un anno, mi rappresenta. Tornato da New York sono approdato a Post Ex e stavo lì con altri colleghi, in questo spazio condiviso a Centocelle. Una volta venne Sara a visitarlo e si fermò a vedere anche il mio studio. Parliamo di quattro anni fa circa. Da lì si è aperto un canale comunicativo. La sua è una galleria che ammiro molto proprio per la capacità di saper guardare indietro, così come di guardare avanti. C’è una cura e un’attenzione nel mettere in relazione artisti storicizzati ed emergenti. Uno sguardo trasversale che riesce sempre a trovare un ordine, un’armonia, un equilibrio estetico in un panorama variegato. Un’operazione non facile. Sara mi ha proposto una mostra che ho realizzato lo scorso maggio, (2023), nel Project Space di via Baccio Pontelli: “Come il vento nelle case” che è stata la mia prima personale in quella galleria. Si è istaurato un bel rapporto di fiducia, di complicità professionale che mi ha portato alla Fiera di Bologna e ora alla collettiva inaugurale del nuovo spazio romano. Si tratta di una gallerista che ha una visione di ampio respiro e mi permette di esprimermi, fidandosi delle intuizioni di ciascun artista.

Quando penso alla differenza che corre tra arte e design mi viene sempre in mente la “Poltrona inutile” (1967) di Cesare Tacchi. Un’oggetto che proprio perché spogliato della sua funzione originaria di abbandono quotidiano, si guadagna uno “scomodo” e ludico spazio tra le opere d’arte. È possibile affermare che la tua produzione ondeggi tra arte e design?
Sono profondamente convinto che la distinzione netta tra arte e design abbia troppo a che fare con il Novecento. Da una parte con un funzionalismo e un tipo di design industriale di cui Milano è stata polo centrale nel mondo. Dall’altra parte con un movimento artistico opposto, ossia con l’arte povera. Parliamo dunque di un periodo storico molto superato. Alcuni considerano il design come “il fratello povero” dell’arte. Si distingue tra il valore dell’oggetto di design, legato al suo materiale e alla sua funzione e il valore immateriale socio-culturale dell’opera d’arte. Credo – come tanti designer hanno pensato prima di me – che ci siano oggetti forieri di un significato politico, pensa al movimento radical o allo stesso Gaetano Pesce con il quale ho avuto la fortuna di collaborare. Persone che hanno stravolto il concetto così statico di design, portandolo a dialogare con la vita, con il pensiero. Nella mia ricerca oggi, la funzionalizzazione o de-funzionalizzazione dell’oggetto è pari al rapporto tra un corpo animato o inanimato. Gli estremi si danno fastidio perché sono sempre un po’ in frizione tra di loro. Non avverto questa distinzione e penso che l’intenzione con cui si modella o si costruisce è un’occasione per mettermi a nudo, per esprimere un pensiero. Non ho mai una visione seriale del lavoro, non mi sento molto designer. Però, di fondo, quando modello una scultura è come se modellassi lo spazio di una forma, ed è ciò che fa l’architettura e in altra scala anche il design.

Prima di perseguire la tua vocazione artistica hai studiato architettura. Questo bagaglio di studi influenza il tuo modo di concepire le opere in rapporto allo spazio?
Assolutamente. Costruire una scultura è dare forma ad uno spazio. Non esercito come architetto, ma credo che l’architettura sia l’alfabeto fondativo di ogni scultore, perché è una scienza. Io non sono uno scienziato, ma ciascuno scultore deve misurarsi inevitabilmente con forze, statica, pesi, volumi. Nel caso specifico, ciò che ho amato di più nello studio dell’architettura, non è certo stata la modellazione 3d dietro a un pc, quel tipo di progettazione digitale da software, che è una deriva che si allontana sempre di più dalla manualità, influenzando anche la scultura. Per me l’architettura è artigianato. La cosa che più ho tenuto cara dello studio dell’architettura è la composizione. Mettere insieme i pezzi di un discorso, magari anche già fatto, ritrovando una nuova configurazione. Nel mio lavoro spesso trovo che questo approccio compositivo – che l’architettura mi ricorda e mi ha insegnato – mi sia spesso utile. Ed è un po’ quello che facciamo noi. L’essere umano mette sempre insieme i pezzi di qualcosa, siamo sempre una frase iniziata da qualcun altro. Comporre oggi significa affidarsi ad un alfabeto già prestabilito e permettersi nuove frasi.

 

Guglielmo Maggini, Stele Dei Cocci, 2024, ceramica smaltata resina epossidica resina poliuretanica, foto Dario Lasagni, Courtesy Artista & z2o Sara Zanin
Guglielmo Maggini, Stele Dei Cocci, 2024, ceramica smaltata resina epossidica resina poliuretanica, foto Dario Lasagni, Courtesy Artista & z2o Sara Zanin

Nel panorama italiano contemporaneo una frangia di faticoso figurativismo sembra affiorare a fianco di un variegato astrattismo già consolidato. Tra i due schieramenti mi pare che avanzi – sia in ambito pittorico che scultoreo – un terzo modo espressivo, assai più agile, né del tutto astratto né del tutto figurativo. Cosa ne pensi di questo quadro? È plausibile “collocarti” in questo terzo scenario?
Credo di sì, perché le mie sono sempre forme che inseguono una figura. Non so se sia una figura paterna, materna…Ma di certo sono forme connesse ad un gesto naturale e a un desiderio di spontaneità che credo mi caratterizzi anche nel mio lavoro. Rigore e spontaneità un po’ si cercano. In questo momento viviamo un grande ritorno della pittura figurativa, è vero. E mi permetto di dire che a volte sembra quasi più “illustrativa” che figurativa. Una sorta di didascalia di un pensiero, come se bisognasse mettere delle freccette sulle idee… Per me è importante creare un flusso legato al rimosso, al dimenticato, ma soprattutto al ricordo. Pesco nello scatolone dell’infanzia. Indago un pensiero che non si è ancora approssimato alla parola. Creo forme alla ricerca di figure più chiare. E in questo stato embrionale si possono già intravedere dei gesti, delle intenzioni che suggeriscono qualcosa. Prendi la mia serie dei “Pappagalli” presentata alla Fiera di Bologna. Sono un insieme di punti e di note che diventa zoomorfo. Forme animali che nascono da una nidificazione della resina, la quale poi si trasforma e chimicamente torna ad essere porcellana. Le figure dei pappagalli sono abbozzate perché sono in transito. Raccontano tanto del momento presente quanto di una continuità, quella dell’inconscio. Da lontano possono sembrare anche dei bracieri, delle fiamme. Come con le nuvole siamo noi a interpretare. Il mio è un linguaggio non del tutto esplicito, che mi permette una maggiore libertà di movimento.

Tornando a parlare di natura… Mentre il pianeta vive un rovinoso degrado ambientale, le tue “sculture botaniche” parlano di meraviglie e sembrano innescare un effetto visivo e percettivo di tipo “fiabesco-sperimentale”. Pensi che l’arte possa aiutare l’uomo a ritrovare un senso di cura per ciò che lo circonda?
Le mie opere sono fatte parzialmente di materiali che la natura l’hanno anche degradata. Io metto in relazione l’argilla, un materiale che viene estratto dalla terra, con qualcosa che invece inquina e ricopre la terra, che è la plastica. Questa collisione ha a che fare col nostro tempo, con il ripensare e il reinterpretare il reale; con il suggerire possibili scenari legati al mio immaginario e alla sua incarnazione fisica. Nella mia pratica ho bisogno di raccontare delle storie o trasformare delle emozioni e delle idee in materiali. Il mondo naturale, botanico, è un pretesto per parlare di uno dei concetti più fraintesi nella storia dell’uomo che è proprio il rapporto che noi abbiamo con la natura. Il mio rapporto con essa è una cartina tornasole di ciò che provo. E penso che questo mio sentire si possa intuire dai miei lavori. C’è un senso di equilibrio, di pace, di serenità o anche di inquietudine. Se ciò che ci circonda ci riconsegna quello che stiamo provando è come se, in fondo, la nostra emozione sia già stata elaborata. Quindi guardarci intorno ci aiuta a chiarirci. Io osservo la natura soprattutto con curiosità e desiderio.

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