Il viaggio veneziano che ci conduce lungo le periferie del mondo attraverso un cammino esperenziale (per dirla in comunicazionese) non è un’immersione nella darkness profonda, piuttosto un pellegrinaggio tra il National Geographic etnoantropologico e l’avventura turistico emozionale. Non un pugno nello stomaco sui conflitti culturali che il contatto tra il nostro mondo e le culture altre, non sufficientemente corazzate ad affrontare l’impari rapporto, ha spesso provocato, piuttosto una carrellata etno artigianale con tendenza naif. Il desiderio del curatore di dare riscatto ai colonizzati, ai mondi usurpati e brutalizzati ha paradossalmente certificato la loro marginalità. Non è sufficiente dare voce ai cosiddetti esclusi per creare un codice ed un’estetica. Il risultato è una cacofonica babele di tribù con l’intento di cancellare le tracce che dal sapiens in poi hanno impresso il corso dell’umanità.
L’ideologia disidentitaria queer che sottende il progetto curatoriale paradossalmente promuove modelli culturali antitetici al limite del ridicolo nella ricerca della fisicità delle sapienze “antiche” tipo ricamo e patchwork, tanto da propiziare il birignao di sciure in casual- chic ammirate dall’abilità di quelle manine…! L’ossessione antioccidentale conduce alla scelta di alfabeti visivi “incontaminati” dall’imperialismo culturale, alla ricerca di una pozza di energia vitale che il nostro esangue mondo non sa più trovare, subendo la fascinazione del primitivo. Non è solo il padiglione centrale a inneggiare al riscatto degli oppressi, ma tutti i padiglioni nazionali insorgono all’unisono aderendo al progetto di Adriano Pedrosa, ognuno rivendicando l’emarginato suo. Uno su tutti, quello Americano che presenta il nativo Jeffrey Gibson con tanto di gruppo folk di danzatrici e suonatori, se ho capito bene Cherokee, in belli ecoloratissimi costumi tradizionali. Spettacolo assicurato anche se al limite del circense.
Del resto, si sa, la capacità yankee di tradurre in entertainment la qualunque è proverbiale, tanto che, per non farsi mancare niente, all’interno del padiglione, su un mega schermo, la stessa musica popolare è tradotta in versione pop niente male. Infatti, garbatamente ci si dimenava un po’ tutti. Altra musica, per rimanere in tema, per spessore e realizzazione formale, quella suonata chez Pinault che ospita Pierre Huyghe con la mostra Liminal, la cosa migliore in laguna. Scenari post antropocentrici che prefigurano la marginalizzazione degli umani la cui unica possibilità di sopravvivenza è l’ibridazione con altre specie, macchine, intelligenza artificiale. Liminal come stato transitorio fra la nostra realtà sensibile e un’entità inumana. Una visione paranoide che porta alle estreme conseguenze quello che viene annunciato in maniera superficiale e gaia ai Giardini. Qui non si scherza, salto di specie, fine. Non so e non ho compreso se l’artista prefigura o auspica l’orrore che ci mostra. Una cosa è certa, Pierre Huyghe è bravo e in giro c’è una brutta aria, l’odio per il genere umano in genere in certi milieu intellò circola.
Umanissimi saluti
L.d.R.