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Art Basel, è ora di fare il punto. Quindicimila battute su Basilea (e sui pirati, i pesci, i poeti)

Francisco Sierra vince l'Unlimited People's Pick
I pirati a Basilea

I pirati sul Reno, il grano della Messeplatz. Traffici romantici e nostalgici di una ciurma all’arrembaggio nel porto sicuro e franco di Basilea. Quella di Art Basel è stata una traversata lunga una settimana (10-16 giugno) provata dalle inquietudini d’Europa ma cosciente, consapevole del presente, nella stasi di un vento apparente. Arie scivolate sul fiume in piena (niente bagno quest’anno) sibilando foto sul campo fuori dalla fiera (di grano, di Agnes Denes, che rimarrà qui fino al raccolto d’agosto) e accarezzando all’interno i suoi stand (le 287 gallerie selezionate, su 800 che si candidano) prima di rituffarsi in strada (la Clarastrasse, che ha concentrato tutte le installazioni di Parcours) e riprendere la corsa del Reno dal Ponte Medio (e vecchio, è del 1226) con le bandiere dei pirati al vento di Rirkrit Tiravanija, guardando in un carpiato stellato: il Merian (l’hotel, cuore della programmazione artistica continua satellite, con le stelle di Petrit Halijaj in facciata), Les Trois Rois (l’unico cinque stelle della città, tradizionale magnete di relazioni e ricchezze), il buon vecchio Münster in arenaria rosso viola e il tramonto arancio rosa sulla Francia – che se ci metti il blu sembra un paesaggio lunare di Ernst da Landau. Polveri e alchimie che animano la città per una sfilata che si fa nel tempo sempre più happening e in qualche modo più open, aperta, un filo più giovane e pure digital con un Mile dedicato. A tratti meno snob, più social e Social Club (quest’anno bucolicamente sparso tra la campagna a sud, con parco sculture dedicato, ma troppo fuori dai giri, meglio tornare nella ex fabbrica di maionese dell’anno scorso) aperto non solo a buyer e dealer multimilionari, ma anche a una via alternativa tra le mucche e i papaveri. Basilea passerà i test e gli stress dei nuovi competitor, Parigi su tutti, e passeggerà indenne sulle nuove esigenze, passaggi generazionali e quant’altro, perché rimane la fiera suprema dal punto di vista qualitativo (se prendi bene lo slancio, da Levy Gorvy Dayan passi a Di Donna, poi Landau, Hazlitt Holland e Applicat-Prazan e torni a casa sereno, se non sei ancora sazio tiri a sud verso Acquavella che suona il mandolino scomposto di Braque da 18 milioni, poi Gray, Gladstone, Mnuchin, Zwirner direzione Nahmad che è un quasi anagramma di mdma e puoi tornare ad accarezzare il grano) e la città intera gravita su di lei, nessuno escluso. Sempre che l’imbarazzante e carissima ricettività alberghiera e i costi medi di una cena o di un bratwurst, salsiccia, non portino all’esasperazione la filiera e la multa al TIR di Isgrò -parcheggiato fino a domenica 16 sulla Platz con la sua formica- venga tolta. Resta il fatto che si tratta di una città-paese (ha meno di 200 mila abitanti, si gira tutta e tutto a piedi) che vive e vivrà di questo bel circo che prova a farsi festival ancora per un po’, anticipato dalle scorribande della ottima Art Weekend di Zurigo (3 giorni, dal 7 al 9 giugno) che fa da traino non richiesto ma ben accetto. Paris e compagnia possono aspettare a mangiarsi la salsiccia elvetica, sono eventi che cascano in città infinite quanto dispersive e la fiera delle luci lumiére, logicamente, vive e si perde al contempo, anche nel rinnovato Grand Palais. Basilea, tra tutte, è quella che sembra rispondere in maniera migliore. Chiude con 92 mila ingressi (contro gli 83 mila del 2023) e Hauser&Wirth il primo giorno fa più di 40 milioni (e apre la nuova sede in città con le inquietudini e i silenzi di uno “storico”, magico, Hammershøi); le vendite a otto cifre, Joan Mitchell (seppur non eccelso, vedere per credere la concentrazione verde salvia energetica di quello di Levy) da Zwirner brucia i suoi Girasoli a 20 milioni ma anche la pastorale di Gorky a 16 e la rara luna bianca in cielo latte di O’Keeffe a 14, recitano il presenti. Gagosian non si pronuncia più (se non per comunicare che Andrew Fabricant, direttore operativo, e sua moglie Laura Paulson, direttrice di Gagosian Art Advisory, hanno lasciato la galleria), ma lo stand il secondo giorno di preview è già ampiamente rimaneggiato, così come Thaddaeus Ropac (via il suo Rauschenberg ROCI messicano per 4 milioni, che fa eco alla bellissima retrospettiva in galleria a Londra), White Cube in un circolo di rimbalzo opale (Mehretu passa a 7 milioni, Bradford a 4,5 mentre Hirst, Emin e Hammons continuano a guardarsi), PACE con la tentacolare panca scultorea di Dubuffet sovrastata da aquiloni come nuvole sospesi (tre edizioni per un totale di sei sedute vendute a 860 mila dollari l’una). I giganti, seppur con maggiori riflessioni, tengono. Il problema a breve e medio termine sono le realtà medie, se ne parla da tempo ma sembra sia giunto il momento: resistenza, resilienza o strage in dirittura d’arrivo? A Basilea, ricordiamo, partono 750-900 franchi al metro quadro per gli stand, più cene, voglie e tutto il resto. Il primo piano della fiera, in realtà, dicono (narrano) risponda ancora bene, come vendite relazioni pianificazioni di progetti, anche in proporzione ai tempi che corrono. Le altre fiere, siano June, Liste, Volta o le varie Untitled, Independent, Nada in altre città, faticano e stentano. Si salva bene il Design (Miami, ma anche Pad e pure quello di Tefaf che si insinua a New York) ma è un’altra cosa. Così raccontano le gallerie che vi partecipano. O i prezzi sono estremamente contenuti, dai 5 ai 15, massimo 20, o è dura. Qua il racconto potrebbe farsi esistenziale, in senso stretto come in quello lato, ma ci fermiamo solamente a constatare che il modello classico di fiera andrebbe aggiornato (e lo sanno bene in casa MCH e Endevor -Frieze- che prevedono di ricamare su misura ogni evento assecondando peculiarità e unicità del posto in cui “vivono”, senti le parole di De Bellis o della stessa Maike Cruse, neodirettrice di Basilea dopo i trascorsi in Gallery Weekend di Berlino). Ridimensionamento, proposte, format, locale, territorio, quartiere, comunità. Parole sparse che possono dare vita a una migliore fruizione complessiva in futuro, di sicuro 300/350 fiere all’anno non sono sostenibili, ma continuano a esserci, e non è umano digerire e decantare migliaia di artisti (4 mila solo a Basel) e opere in una finestra temporale così limitata (argomento trito e ritrito ma mai risolto e il rischio conseguente più che l’estasi e il pensiero è il costante conato di vomito). E la definizione di “arte”, non come termine in sé, ma come termini di consumo, di bene di consumo alla moda, di Instagram, di trasferimento intergenerazionale (saranno oltre 80 mila i miliardi di dollari di asset a favore della Generazione X, Z e ai Millennial nei prossimi venti anni, e riflessioni e contraddizioni si sprecano sulla volontà di chi, come, cosa collezionare), di predilezione di “esperienze”, di rigurgiti di velleità classiche (o perlomeno “antiche”), di pittura facile e bella iper ultra contemporanea. Intanto Art Basel si fa scaltra e apre uno shop, che andrebbe chiamato concept store, a piano terra, fuori Unlimited (meno frivola e luna park, più ancorata seppur mastodontica alla terra), a fianco ai caffè e alle riviste. Vende di tutto, dalle felpe agli skateboard, edizioni patinate, speciali, pezzi di design, il tutto curato da Sarah Andelman, fondatrice dello store parigino Colette. Artificazione mon amour, e porte spalancate al lusso per stare al passo coi tempi e lo scadimento di gusto, studio, sensibilità. Anche le opere di Parcours corrono ad abitare negozi e centri commerciali in città lungo la direttrice di zona Clara. E la galleria parigina Lo Brutto Stahl ha allestito una mostra (Air Service Basel 2024) nell’aeroporto privato di Basilea appena al di là del confine, in Francia. Ci vorrebbero i pirati del Reno, forse. O il melone di Chardin che mercoledì 12 si è mangiato l’asta di Maîtres Anciens di Christie’s volando a 28,7 milioni di euro. I maestri reggono, quando la poesia supera la fantasia e fragola una fetta di melone, mentre appena un mese fa le vendite di moderno e contemporaneo delle big three -Sotheby’s, Christie’s e Phillips- a New York, hanno perso il 22% dallo scorso anno (che già era in perdita), Christie’s deve ancora riprendersi dagli hacker, Sotheby’s taglia le teste per provare a ridurre i debiti di Drahi (e porta il trittico di Basquiat il 25 giugno a Londra a metà prezzo-stima rispetto a due anni fa) e la neonata Photofairs a NY si annulla a data da destinarsi. Il destino ora è solo Basilea e la sua Beyeler che rivela nel vapore delle sue linee quella che si preannuncia come mostra storica, un perpetuo divenire di opere in fila e addetti che raccontano le linee spostandone gli orizzonti (Echoes Unbound, aspettando il sontuoso Matisse di autunno e la prossima apertura -2025?- della House for Arts ideata da Zumthor che permetterà alla Fondation di incrementare la superficie degli allestimenti di circa 1500 metri quadrati appena lì a fianco). In città nel frattempo si sparpagliano come lune luminose ordinate le esposizioni nelle tradizionali istituzioni (Flavin, Black figuration in painting, Japan, Ingenious women e soprattutto la grazia su carta di From Holbein to Trockel tra le tre sedi del Kunstmuseum; Mika Rottenberg al Tinguely; Odutola alla Kunsthalle) a cui si aggiunge la perla minimale industriale nata da un ex magazzino di champagne: la Kunsthaus Baselland, progettata da Buchner Bründler Architekten. Un luogo nuovo e monumentale per il contemporaneo. Si fa da spola tra qui, la Beyeler, il Basel Social Club e la fiera. I pellegrinaggi rivelano origini prevalentemente europee, ma anche asiatici (è migliorato il lavoro con i collezionisti di medio ed estremo oriente), male gli americani che aspettano di calpestare le foglie stropicciate sulla Rive Gauche il 15 ottobre per la sorella baguette Basel Paris. Lì si vedrà la rigenerata posizione che prenderà al terzo giro di boa, qua la 54esima edizione di Basel non sembra molto diversa dalle ultime tre post Covid. Il pezzo copertina è il capolavoro giovanile di Kandinsky acquistato nel 2023 da Sotheby’s a Londra (di cui abbiamo già ampiamente parlato) che ha già fatto il giro di Maastricht e New York, sponda Tefaf, utile come vetrina di museo per Landau. Ufficialmente non è in vendita, la richiesta è sopra i 60 milioni di dollari comunque. Tra le cose da segnalare di questa edizione, sicuramente le sezioni capolavoro Feature e Statements; tra le proposte migliori, come eleganza e curatela, spiccano Offer Waterman (a lampi di blu con Turnbull, Armitage, Auerbach e pure una cipolla di Hockney), Alison Jacques, Hauser&Wirth, Paula Cooper, Pace, Richard Nagy, Mnuchin, Hazlitt Holland, Levy Gorvy Dayan, Vitamin (in un labirinto interamente dedicato a Hao Lang che a Hong Kong ha un record d’asta di quasi 3 milioni), Vielmetter, Peter Kilchmann, Jack Shainman, Gomide e tra le 19 italiane prescelte, avanti Massimo De Carlo e Galleria dello Scudo (per questo e le opere migliori si veda il focus dedicato). Parentesi sulle top sales degli artisti di casa: il delicato cosmo Concetto spaziale, 1955, di Fontana passato a 4 milioni da Levy Gorvy Dayan, e la Wooden Rose, 1966, di Kounellis venduta a 2,5 milioni da Gladstone, la cui Barbara è appena scomparsa a 89 anni (16 giugno, nel giorno di chiusura della fiera). Per il resto, per la compagine contemporanea italica, a parte il “solito” Cattelan tra De Carlo e Gagosian, il nulla cosmico per stare sulla scia di Fontana. L’Italia della contemporary è in panchina da decenni. Come novità, si dilatano i caratteristici stand di Perrotin e Jeffrey Deitch sviluppandosi per tre piani interamente “rivestiti”. Come offerta in generale, si sente prepotente il cosiddetto Effetto Biennale, il Global South, in particolare Brasile (Lorenzato, Portinari, Chico da Silva e la scoperta Heitor dos Prazeres) e l’America Latina in toto (il cileno Francisco Sierra vince l’Unlimited People’s Pick con il suo acquario concettuale). Costante la posizione africana (Mc Arthur Binion, Kara Walker, Boafo, Anatsui, Yiadomo-Boakye), che si riverbera nella mega mostra al Kunst Gegenwart sulle rive del Reno (cento anni di pittura black) e il Surrealismo, sulla cresta dell’onda dalla Biennale della Alemani con solo show di Carrington da Wendi Norris (fresca di record in asta esattamente un mese fa, a 28,5 milioni) e i sempiterni Magritte e Max Ernst, ovunque. Spunta qualcosa in salsa indiana e si fanno più insistenti le avvisaglie del tribolato Medio Oriente. Oltre Etel Adnan e Ali Cherri, ne è testimone e testimonianza Nour Jaouda, giovane artista libanese già a Venezia quest’anno, finalista al Baloise Art Prize (il premio da 30 mila franchi appena assegnato a Tiffany Sia e Ahmed Umar), che concilia terra, tessuto, memoria, pittura e architettura all’interno dello stand di Union Pacific: una cancellata di ruggini coloniali (inglesi) e arabeggianti fa da limite tra gli ulivi e i cedri che si ritagliano negli arazzi. Riecheggiano i versi di Mahmoud Darwish, poeta palestinese, e l’immagine del giardino, come libertà e spazio sacro, della nonna in Libia. Qua, tra la pelle e la corteccia, risiede una sorta di amore che tocca le corde dell’uomo e si concilia nell’arte, senza mode lussi e concept store per quanto ludici corollari ben accetti dei mondi che vanno. E vengono: ora è infatti tempo di mare, di Grecia, di Hydra, si torna all’Air Service di Basel per volare verso la Deste Foundation. C’è George Condo con The Mad and the Lonely. Forse la luna è bella solo perché è lontana, scriveva Darwish.

Max Ernst da PACE
Francisco Sierra vince l’Unlimited People’s Pick
Chico da Silva da David Kordansky
Hao Liang da Vitamin
Nour Jaouda da Union Pacific
Thiebaud
Il mandolino di Braque da Acquavella
White Cube
Schiele da Richard Nagy
Copley da Galerie 1900-2000
Offer Waterman
PACE
La luna nel cielo di O’Keeffee da Levy Gorvy Dayan
La luna di Ernst da Landau
Wesselmann da Levy Gorvy Dayab
Mitchell da Zwirner
Un’altra bocca fumante di Wesselmann da Van de Weghe

 

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