É in scena al Guggenheim Bilbao la più grande mostra mai dedicata in Europa a Yoshitomo Nara. Lo stile pop, la poetica stratificata e le sue bambine incazzate sono gli elementi che ritornano nei suoi quarant’anni di carriera, che il Museo racconta dal 28 giungo al 3 novembre 2024.
Forse è un’immagine troppo facile, ma è lì e l’afferriamo: Yoshitomo Nara, bambino, è chino sul pavimento della casetta che i genitori gli hanno costruito in giardino. Abitano nella prefettura di Aomori, in Giappone, una tranquilla regione rurale, dedita alla coltivazione di mele, situata nella parte settentrionale dell’isola principale del paese, Honshu. Nara passa lì le sue giornate, da solo, a guardare la tv, ad assorbire la cultura occidentale attraverso i nuovi media. Una riproduzione di quella casetta in legno è ora esposta al Guggenheim di Bilbao, e al suo interno, inaccessibile se non con lo sguardo, pare di vedere ancora l’artista, a otto anni, circondato da fogli e matite, da disegni e schizzi traboccanti delle figure che compongono il suo universo privato. Migliaia di grandi occhi di carta che lo guardano, che testimoniano la sua esistenza.
Una visione rafforzata dalla presenza di quegli stessi personaggi, ora, alle pareti del museo, a suggerire che la mente creativa di Nara, almeno quella, abita ancora la vecchia casetta. Ma, dopotutto, nemmeno l’artista sembra rispecchiare i suoi 64 anni mentre passeggia per l’esposizione: cappellino da baseball, t-shirt nera con un teschio sopra, pantaloncini corti. Nell’indistricabile rapporto tra arte e vita, non si può fare a meno di notare come Nara sembri aderire all’ostinato infantilismo che le sue opere ostentano. O, limitandosi ad aggettivi meno moralizzanti, i suoi lavori conservano ostinatamente un piglio diretto, che è poi ciò che avvicina lo stile di Nara al mondo pop. Si tratta, nella versione più nota, di ritratti quasi in serie di bambine di circa 5-6 anni, perlopiù piuttosto tristi o piuttosto incazzate. Occhi giganti si avvicinano a creare un cruccio minaccioso, nelle mani brandiscono armi, sul corpo i segni di chi ama combattere, spesso acconto a loro divampa del fuoco.
A questa matrice stilistica Nara ha aggiunto e variato elementi, creando un universo uniforme ma diversificato dove abitano tutti i suoi personaggi. Matrici che negli anni, con le esperienze e i viaggi in Europa e Stati Uniti, si caricano di preoccupazioni e istanze sociali, si fanno portatrici di messaggi, criticano la guerra e denunciano le ingiustizie. Eppure, in fondo, sembrano più di ogni altra cosa riverberare gli echi di un’infanzia idealizzata e mai passata: la casa dal tetto rosso, i germogli, la pozzanghera, la scatola, la barca blu e il bosco, rivelano la continuità di pensiero che Nara ha mantenuto nel corso della sua carriera e al contempo ne evidenziano lo sviluppo stilistico.
Oltre al disegno, che rimane la sua forma d’espressione più amata, in quarant’anni di carriera l’artista ha spaziato dalla scultura all’installazione; declinazioni che la mostra, come mai fatto in Europa, espone al fine di un’esperienza completa del lavoro di Nara. In tal senso, presentissima la componente musicale (con tanto di playlist Spotify), che in tutta la carriera ha accompagnato la vita e l’ispirazione di Nara, cresciuto con Bob Dylan nelle orecchie mentre camminava per le piovose campagne giapponesi. Una scena che racchiude tutta la sua poetica: la tentazione dell’autoisolamento e un udito sensibilissimo ai suoni che arrivano da altri mondi.
Animo controverso quello umano, che nel suo non risolversi mai gode di un piacere quasi perverso. Nell’accettazione dei suoi controsensi Nara ha trovato, negli impronosticabili sentieri del gusto e dell’affezione artistica, una visione che gli ha permesso di essere transnazionale come pochi altri autori. Il suo Neopop, fatto di personaggi illustrati e scenari superflat, ha saputo unire la Pop Art occidentale, il rock anglosassone e la cultura di massa nipponica, dal manga agli anime, inserendosi e alimentando una cultura visiva collettiva che proprio in quegli anni andava definendosi.
Per i giapponesi Nara crea personaggi che brandiscono vessilli moderni di culture lontane; per noi occidentali prefigurano invece l’universo iperbolicamente infantile che oggi associamo al Giappone dei videogames, dei gadget, dei pupazzetti, pure dei Tamagotchi.
Perpetrando (con consapevolezza o ingenuamente, chi lo sa) un approccio a cavallo tra cultura alta e bassa (la palette cromatica e la luminosità della sua pittura, parole di Nara, provengono da Piero della Francesca), è riuscito a fare quel che rende ogni artista tale: generare un mondo. Un mondo senza adulti e senza contesto, senza società dunque, dove un bambino può vivere per sempre, senza crescere mai, assorbendo la realtà ma mai diventandone veramente parte. Ed ecco che tra occhi malinconici e sguardi provocatori, davanti alle sue opere ogni visitatore (adulto come non mai di fronte ai quei bambini giganti) più che ricordare la sua infanzia sente la colpa di averla perduta, o di averla rovinata alle generazioni future.
C’è un rimprovero enorme negli sguardi delle sue bambine, che feriscono più dei coltelli insanguinati che brandiscono. Non sappiamo esattamente cosa ci contestino (e non lo sa neppure Nara: «Se mai capirò la loro natura, probabilmente smetterò di dipingere»), ma è evidente che ci attribuiscano la colpa di qualcosa. Chissà che Nara non li ritragga piccoli proprio per questo: fare in modo che possano entrare in noi, scavarci lo stomaco e rimestarci la coscienza.