Tra le molte storie portate sugli schermi della 81esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia ce ne sono due che della specificità geografica fanno la propria forza, ritraendo entrambe nuclei familiari la cui esistenza stessa non può prescindere dal territorio in cui sono radicati: da un lato la serie di Thomas Vinterberg “Families Like Ours”, ambientato in una Danimarca sul punto di essere sommersa dall’innalzamento del livello del mare, dall’altro “Vermiglio”, il secondo lungometraggio di Maura Delpero, le cui vicende si collocano nell’omonimo paese dell’alta Val di Sole durante l’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale.
Vincitore del Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria a Venezia, “Vermiglio” nasce da una visione notturna della regista trentina che, a seguito della scomparsa del padre, viene visitata in sogno da una sua “versione” fanciullesca: di qui l’idea di raccontare i luoghi natii del padre all’epoca in cui lui fu bambino, e quindi un’epoca tanto recente quanto indissolubilmente legata a un mondo i cui ritmi e le cui regole non trovano e non troverebbero il benché minimo spazio nella contemporaneità per come siamo abituati a conoscerla.
È la stessa regista a raccontarci, con le parole prima che con le immagini, a dirci quali siano le coordinate spazio-temporali, quali gli umori e le sensazioni che ha voluto descrivere nel suo film:
Quattro stagioni nella vita di una grande famiglia. Una storia di bambini e di adulti, tra morti e parti, delusioni e rinascite, del loro tenersi stretti nelle curve della vita, e del farsi da collettività individui. Di odore di legna e latte caldo nelle mattine gelate. Con la guerra lontana e sempre presente, vissuta da chi è rimasto fuori dalla grande macchina: le madri che hanno guardato il mondo da una cucina, con i neonati morti per le coperte troppo corte, le donne che si sono temute vedove, i contadini che hanno aspettato figli mai tornati, i maestri e i preti che hanno sostituito i padri. Una storia di guerra senza bombe, né grandi battaglie. Nella logica ferrea della montagna che ogni giorno ricorda all’uomo quanto sia piccolo”.
È proprio la montagna, ripresa nella sua immensa, e a tratti opprimente, staticità con inquadrature fisse, a rimettere in ordine una prospettiva naturale oggi smarrita, in cui le vicende degli uomini, per quanto drammatiche, scompaiono a confronto delle immutabili vette dolomitiche: “Abbiamo lavorato molto sulla dualità tra macro e micro, sia da un punto fotografico che narrativo. La montagna influenza molto il modo di essere delle persone, racconta le caratteristiche di una comunità, quella montanara, in cui le persone contengono, più che esprimono, le emozioni in un modo specifico, che non si trova in altri luoghi” racconta Delpero a Venezia. In “Vermiglio” le stagioni si succedono inesorabili, e la pace, in cui paradossalmente la famiglia Graziadei viveva in tempo di guerra, viene incrinata dall’arrivo di due soldati che hanno abbandonato il fronte, disertori.
Da un lato il padre e patriarca, Cesare, interpretato da un irriconoscibile Tommaso Ragno, maestro del paese, figura tanto intellettuale quanto risoluta nel decretare quali dei suoi figli debbano proseguire gli studi, noncurante delle ambizioni scolastiche che alcuni di essi coltivano. Dall’altro la madre, Adele (Roberta Rovelli), che ha dato alla luce dieci figli, figura operosissima, sempre in movimento e al contempo vigile su tutto ciò che le accade intorno, nonostante i pargoli che le pendono dal collo. Proprio la maternità – tema che la regista aveva già affrontato con intelligenza e delicatezza nel suo primo lungometraggio, “Maternal” – è un altro tema centrale di questo film, vissuta da Lucia (Martina Scrinzi) prima come inganno e dolore e, solo in un secondo momento, come spinta verso il futuro, motore di emancipazione e di passaggio epocale, dal paese alla città, per non soccombere al ruolo di vittima a cui verrebbe relegata a vita se rimanesse a Vermiglio.
“Vermiglio” di Maura Delpero è una lente d’ingrandimento su di un mondo che crediamo di conoscere benché non vi apparteniamo. Il rischio di romanticizzare le esistenze dei nostri avi è concreto – e, in un certo senso, di abbandonarsi a una sognante nostalgia verso un passato a cui nessuno di noi vorrebbe realisticamente tornare – è quasi inevitabile durante la visione del film. Tuttavia, a discapito di un ritmo spesso dettato da interminabili pianti infantili e da lunghi silenzi, “Vermiglio” riesce nell’impresa di non apparire come una ricostruzione per immagini di un’innocenza perduta, anzi. Lo sguardo di Delpero è quanto mai partecipe e autentico, e, alternando gli sconfinati e alteri paesaggi alpini con gli interni sovrappopolati e angusti in cui ribollono gli umori della famiglia Casadei – i cui membri appaiono tanto impassibili se visti da fuori quanto animati da un’energia vulcanica a un più attento sguardo –, restituisce un racconto organico e pulsante di una realtà, quella di Vermiglio, al tramonto della Seconda Guerra Mondiale, tanto specifica quanto universalmente riconoscibile.
Vermiglio esce nelle sale italiane il 19 settembre, distribuito da Lucky Red.