Dal 12 settembre 2024 al 12 gennaio 2025 la mostra Saodat Ismailova. A Seed Under Our Tongue, a cura di Roberta Tenconi, è visitabile negli spazi di Pirelli HangarBicocca, a Milano. Si tratta della prima mostra antologica in Italia dedicata alla pratica ventennale dell’artista e comprende dodici opere tra film, installazioni e sculture.
Saodat Ismailova. A Seed Under Our Tongue racconta il paese nel quale l’artista è cresciuta, l’Uzbekistan post-sovietico, ma anche un’area più ampia dell’Asia Centrale, quella che comprende l’Amu Darya, il Syr Darya, l’Aral, la Montagna del Sulaiman-Too, la foresta di Arslanbob. Tutti luoghi che Ismailova ha potuto conoscere tra il 2004 e il 2010, durante i viaggi intrapresi per realizzare la serie di documentari Music of Central Asia. La sua pratica artistica, incentrata sulla videoarte, ha infatti origine dalla sua formazione ed esperienza di regista.
In questo periodo è potuta entrare in contatto con alcune comunità, altrimenti difficili da raggiungere, che ancora oggi tramandano saperi ancestrali e una cultura tradizionale che sempre più sono stati marginalizzati nel corso della storia. A emergere con forza da tutta la mostra è la volontà di Ismailova di trasmetterli, attraverso il mezzo artistico, a un vasto pubblico. In questo senso va anche la fondazione, nel 2021, del collettivo DAVRA, volto appunto a coltivare e preservare il sapere e la cultura dell’Asia centrale.
A prendere la forma dei luoghi di cui l’artista racconta è l’intero allestimento, realizzato in collaborazione con lo Studio Grace. Innanzitutto, le sedute replicano le cinque cime più alte della Montagna del Sulaiman-Too, la cui sagoma è ricamata tra l’altro sul tendone di ingresso alla mostra. Anche alcuni coloratissimi materassi in cotone messi a disposizione del pubblico per la fruizione dei video più lunghi richiamano quelle terre: si tratta dei tradizionali kurpache.
Infine, le due grandi installazioni video a tre canali che delimitano e al tempo stesso contengono la mostra sono anche metaforicamente, sulla base dei luoghi dove sono avvenute le riprese, due punti cardine dell’area geografica dell’Asia centrale, ovvero i fiumi dell’Amu Darya e del Syr Darya. I due film, uno di fronte all’altro, racchiudono le altre opere che si distribuiscono in uno spazio fluido, fatto di continui rimandi non solo a livello di contenuto, ma anche spaziale, di rimandi sonori e visivi.
Ismailova condivide con il pubblico una cultura affascinante e una storia complessa, non a tutti nota, che può farsi metafora dei tanti paesi interessati da sistemi di controllo imposti dall’esterno e da colonizzazioni; esplicito è il suo invito a uno sforzo in termini di conoscenza nei confronti anche di quelle realtà percepite come lontane. I film di Saodat Ismailova introducono il visitatore a nuove possibilità del sentire, a modalità altre di percezione del mondo e del sé in relazione a esso; una percezione ancestrale, di intimo legame con la natura, di responsabilità nei confronti degli altri esseri viventi.
Il titolo della mostra, che tradotto in italiano suona come Un Seme Sotto la Nostra Lingua, fa riferimento all’antica leggenda locale della trasmissione di un seme di dattero che, a partire dalla figura mitica di Arslanbob, che lo conservava sotto la lingua, passando per generazioni, viene dato infine a un bambino, Akhmad Yassawi, divenuto in età adulta il più importante mistico dell’Asia centrale. Secondo la leggenda, dove Akhmad Yassawi piantò il seme di dattero nacque la famosa foresta di alberi di noce nota col nome di Arslanbob, che si trova nell’attuale Kirghizistan e che è tutt’ora considerata luogo sacro e meta di pellegrinaggio. Dedicata alle leggende di questa foresta è l’ultima grande installazione video a tre canali, Arslanbob (2023), completata dalla scultura dorata a forma di chicco, The Seed Under Our Tongue (2024), volta a sottolineare l’importanza del viaggio di questo seme, che si può intendere come trasmissione di eredità culturale.
In Arslanbob le inquadrature della foresta si alternano alle miniature tratte da un libro antico che lì si trova, nella tomba di Arslanbob, opera fondamentale di cosmografia del tredicesimo secolo intitolato Meraviglie delle cose create e fatti miracolosi delle cose esistenti. Il film riporta inoltre le leggende, tramandate di generazione in generazione, riguardanti le vicende magiche accadute nella foresta – magia che in parte può essere ricondotta alla grande concentrazione dei noci, alberi dalle proprietà allucinatorie.
Ma il concetto di trasmissione non riguarda solamente questioni spirituali, quanto di coscienza collettiva: un comune pensiero locale attribuisce a ogni essere umano la responsabilità sia delle sette generazioni precedenti, sia delle sette generazioni successive.
La seconda grande installazione video a tre canali è Stains of Oxus (2016), dal quale si evince un forte senso di appartenenza al proprio mondo; la capacità di vivere l’ambiente naturale riconoscendolo in quanto tale, con un reale senso di ecosistemicità. Il film si sviluppa attraverso il racconto dei propri sogni da parte di alcuni personaggi, di diversi genere ed età, che vivono nella zona del fiume dell’Amu Darya. Questa comunità considera i sogni come messaggi che, raccontati alle acque, possono arrivare agli antenati. La natura, con i suoi suoni ed elementi, risulta essere, in modo evidente, parte integrante della memoria collettiva; ma un altro fattore accomuna il racconto dei sogni: la contrazione dell’habitat del Centro Asia, comprese le risorse idriche e di conseguenza i suoi abitanti, dipesa dalle vicissitudini che hanno caratterizzato l’area geografica durante il periodo sovietico. I grandi fiumi e i grandi laghi, o i grandi felini come la tigre del Turan, restano ricordi, o addirittura diventano mitologie.
Numerosi riferimenti nei film di Ismailova vanno infatti al periodo a partire dal 1924, durante il quale l’Uzbekistan, zona già interessata da invasioni russe nel corso del 1800, diventò Repubblica Socialista Sovietica. L’artista sottolinea gli stravolgimenti che tali cambiamenti geopolitici portarono con sé – come nel caso della cattiva gestione delle risorse idriche dipese dal piano di sfruttamento intensivo del terreno a fine agricolo, in particolare per la coltivazione del cotone, imposto da Mosca.
The Haunted (2017) racconta dell’estinzione della tigre del Turan, causata della netta riduzione del suo habitat e dal bracconaggio. Il film esplicita, dunque, la relazione di causa tra il fenomeno coloniale e quello della crisi ambientale – ancora una volta quest’area geografica può risultare emblematica rispetto a pratiche comuni in molte altre parti del mondo.
Da un punto di vista occidentale potrebbe trattarsi esclusivamente di gravi questioni ambientali, ma nelle opere Ismailova parla di un grande dolore collettivo: l’antica spiritualità animista dell’Asia Centrale trova degli interlocutori speciali negli elementi della natura: il fiume è fonte di vita, può essere un soggetto al quale chiedere aiuto, con il quale confidarsi, la tigre è un antenato, una guida morale, un archetipo di protezione.
L’imposizione a partire dagli anni Venti di modelli di produzione, e dunque di vita, da parte della Russia alle Repubbliche Sovietiche asiatiche non ha comportato solamente sconvolgimenti riguardanti l’ecosistema.
In Chillahona (2022) la voce dell’artista racconta di occhi che, ipnotizzati, cercano sempre la luce, quella della televisione. Con questo film Ismailova riporta i risvolti psicologici e sociali del periodo della perestrojka, la serie di riforme politico-sociali ed economiche messe in atto da Mikhail Gorbachev poco prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica del 1991, volte a intensificare la produttività e a uniformare l’URSS. Oltre a sottolineare la difficoltà della gestione di sviluppi tecnologici accelerati da parte di una popolazione che prima ne era scevra, Ismailova tratta del bisogno di esorcizzare il senso di svuotamento e di caos generato da tali cambiamenti prima, e dal vuoto di potere dopo. Lo fa richiamando una tradizionale pratica catartica femminile che consiste in un autoisolamento di quaranta giorni all’interno di una cella chiamata Chillahona.
La mostra si rivela coesa, forte, nonostante il linguaggio dell’artista spazi tra pratiche diverse, da quelle cinematografiche a quelle afferenti a tradizioni artigianali.
Insieme ai film troviamo due manufatti: Chillahona (2024) è un tessuto ricamato dall’artigiana Madina Kasimbaeva su disegno dell’artista, reinterpretazione del tradizionale ricamo detto falak, e accompagna l’omonimo video riprendendone i disegni degli animali archetipi, che risultano così i protettori dei personaggi dell’opera; The Haunted (2024) è invece un tessuto Bakhmal realizzato tradizionalmente nella valle del Margilan.
Inoltre, due videoinstallazioni vedono proiezioni su tessuto: in Talosh (2024) le parole del giovane poeta uzbeko Jontemir Jondor, che in questo momento storico rappresenta una voce indipendente e dunque di grande rilevanza, sono proiettate su un intreccio in crine di cavallo; nel caso di As We Fade (2024) alcune immagini che riguardano la zona della montagna del Sulaiman-Too sono proiettate su ventiquattro pannelli di seta. Quest’ultimo caso è emblematico di come Ismailova spesso accosti nuove immagini da lei girate a immagini d’archivio. In molte delle sue opere appaiono sia materiali del suo archivio d’artista, immagini afferenti ai suoi viaggi, sia immagini di altri autori, che talvolta sono omaggi a grandi registi.
Sempre in stretta connessione con l’argomento della mostra sono le altre sculture esposte: The Mountain Our Bodies Emptied (2024) è un calco della grotta Tamchi Tomar, luogo sacro nella montagna Sulaiman-Too venerato per la sua capacità di riattivare il legame tra uomo e Terra; mentre A Guide, an Ancestor, a Tiger, a Healer (2024) sembra essere un reliquiario. Contiene infatti 54 elementi in vetro a imitare le ossa della zampa di una tigre e quelle di una mano umana, ancora una volta a rinsaldare il legame inscindibile tra animali umani e non umani.
Infine, altre due opere video sono presenti in mostra e si dispongono su due facce di uno stesso schermo posto al centro del percorso. Si tratta di Two Horizon (2017), il film che si alterna a Chillahona, e di 18.000 Worlds (2023), il film che invece di alterna a The Haunted.
Entrambi parlano di altri mondi.
Il primo accostando riprese della stazione spaziale sovietica di Baikonur, in Uzbekistan, quella da dove nel 1961 partì il primo uomo a orbitare intorno alla terra, Yuri Gagarin, ad alcune immagini che alludono al viaggio spirituale di ascesa di colui che secondo la leggenda è stato il primo sciamano, Qorqut.
18.000 Worlds raccontando la visione del filosofo persiano Sohrawardi del XII secolo, condivisa da molti scritti dell’Asia Centrale, secondo cui l’universo sarebbe composto di 18.000 mondi.
Si potrebbe dire che la mostra di Saodat Ismailova voglia incoraggiare la conoscenza, la trasmissione di essa, ma anche farsi invito all’attraversamento di mondi diversi, che siano contrapposti o in dialogo, spaziali o temporali, trascendenti o terreni.