Dopo l’assiduo confronto con Realismo e Impressionismo, che lo avrebbe forse relegato al ruolo di meraviglioso epigono, James Ensor ha trovato lo stile proprio e caratteristico con cui avrebbe aperto al modernismo. Una vicenda artistica che il KMSKA di Anversa racconta nella più grande mostra organizzata in occasione dei 75 anni dalla morte dell’artista: Ensor’s Wildest Dreams, dal 28 settembre 2024 al 19 gennaio 2025.
Ensor col cappello e la piuma circondato da grottesche figure mascherate sotto un luminoso arcobaleno. Ensor un uomo che fugge in un vicolo per evitare la falce della morte che incombe sulla città. Ensor un mazzo di fiori posto nel vaso perfetto. Ensor uno studio in disordine, con teschi e vernice ovunque, sparsi sul pavimento insieme a un coltello e un paio di pattini. Ensor una coppia di ragazzi che si lavano in un meriggio d’estate fatto di polvere e centri tavola in pizzo. Ensor due scheletri che si contendono un’aringa.
Ensor pittore dai mille volti, dalla moltitudine pronunciata. Se ogni opera è espressione di sé, allora lui è mutato tanto da non lasciare la scia, deviando di continuo da un genere all’altro, prima di trovare il suo. Sfuggendo dalle definizioni, evitando di affezionarsi troppo a una linea e imporsi così una limitazione. Se alcuni artisti scelgono di mostrarsi migliori sviluppando uno stile riconoscibile, il pittore belga ha inizialmente preferito sfidare i migliori di ogni campo, considerandosi a sua volta il migliore.
L’abbondanza creativa come scelta ideologica non si è mai tradotta per lui in una perdita di controllo tecnico, orgogliosamente conservato insieme al raffinato bilanciamento dei toni: il rosa che galleggia come sale nei suoi cieli blu ricorda le nuvole sul mare al tramonto. Solo un esempio dei setosi giochi cromatici che cui il pittore avvolgeva le sue scene, ognuna un saggio di eleganza. Oltre che un guanto di sfida rivolto alle principali correnti del suo tempo: il Realismo di Courbet e Raffaelli e l’Impressionismo di Degas, Monet, Renoir e Pissarro.
Movimenti da cui Ensor ha tratto ispirazione, da cui ha assorbito il linguaggio, studiandone ogni sillaba, componendo a sua volta una personale variazione. Sempre dal suo eremo di Ostenda, dove d’inverno il mare è ampio e plumbeo, alla stregua del cielo basso e grigio che come cemento schiaccia la città, facendo dello studio il rifugio ideale per l’auto clausura che l’artista, introverso e schivo al limite (oltrepassato) della misantropia, si era imposto. Da lì, con estrema cura sceglieva il materiale nelle botteghe più costose, ma allo stesso tempo rimaneva aggiornato su ciò che accadeva nell’ambiente dell’avanguardia, dell’arte, della musica e della letteratura a Parigi e Bruxelles. Ambienti in cui a sua volta era conosciuto, apprezzato e considerato da amici e nemici come un temibile talento. Per la finezza tecnica, la versatilità e soprattutto l’immaginazione sfrenata.
Il KMSKA di Anversa, in un allestimento che non lesina soluzioni teatrali e installazione ad effetto, ripercorre le tappe della carriera lunga ed eterogenea di Ensor, anche grazie al confronto con le opere degli artisti coevi già citati, così come i lavori di antichi maestri come Bruegel, Rembrandt, Watteau, Goya o Hokusai, il cui influsso ricade sull’immaginario inquietante e visionario dell’artista belga, che gradualmente incrinerà il piano dl reale fino ad annettervi una fauna dove l’uomo oscilla tra il suo essere grottesco e la sua versione tutt’ossa. È proprio grazie alla combinazione dei colori tenui dell’impressionismo col suo repertorio macabro e tenebroso che Ensor si libera del confronto agonistico con i colleghi, entrando in territorio creativo che appartiene a lui soltanto.
A cerniera di questo passaggio si pone La Mangiatrice di Ostriche, che raccoglie alcuni elementi definibili classici (l’interno borghese, la riflessione sulla luce, l’allestimento scenico) e li unisce ad alcune scintille moderniste (le dimensioni enormi rapportate a un soggetto umile, l’allusione simbolica della sedia vuota, che suggerisce un’assenza). Risalente al 1882, più tardi l’opera verrà riconosciuta dagli esperti come il primo dipinto espressionista in Belgio, ma in realtà vi è già quasi oltre. Nel 1887 dipinge Adamo ed Eva cacciati dal paradiso (KMSKA) e disegna Le tentazioni di Sant’Antonio (Art Institute Chicago), in cui emerge la predilezione dell’autore per gli aspetti più straordinariamente stravaganti. Con un’iconografia grottesca e terrificante, inizia a evoca immagini esilaranti e infernali che normalmente compaiono solo nei sogni più sfrenati.
Ironia ed estetica orrifica convivono in Ensor come la sua cifra stilistica più riconoscibile, sia dal punto di vista tecnico che concettuale, quella con cui smette le moltitudine che lo abitano e si consacra come precursore di Espressionismo e Surrealismo, il binario lungo il quale le avanguardie europee troveranno definitivamente la via per viaggiare verso il modernismo. Idealmente, il suo tema prediletto diventa la critica alla società borghese, che il pittore vede come becera, superficiale, ingorda, meschina, insipida, inconsapevole, consumista e irrispettosa. Persone su cui la morte incombe già in vita.
Sarà forse che d’estate i turisti disturbavano le sue passeggiate sul lungomare di Ostenda? Sicuramente vero, com’è vero che il pittore non ha risparmiato nemmeno potenti e figure note, estendendo il suo sguardo feroce su gran parte dell’umanità che lo circondava. Ritraendo gli individui come pagliacci o scheletri, o sostituendo le loro facce con maschere di carnevale, la rappresentò come stupida, vana e ripugnante. Un processo di trasfigurazione della realtà basato su un linguaggio fatto di colori puri e aspri, con vibranti colpi di pennello interrotti che accrescono l’effetto violento dei suoi soggetti. La tavolozza si schiarisce ed appaiono elementi inquietanti come maschere, scheletri, spettri e demoni, con l’antica immagine della morte che si nasconde dietro maschere spaventose, cariche di un simbolismo ambiguo ed ossessivo.
La reiterazione del soggetto grottesco e sinistro in contesti realistici è forse il singolo aspetto identificativo di Ensor. In modo simile a come oggi ci diverte vedere nei film Marvel i supereroi vivere nelle nostre città e compiere alcuni dei nostri gesti quotidiani, l’onnipresenza dei mostri nelle scene del pittore suggerisce come quella sia la vera natura dell’uomo: una maschera che non occulta, non trasforma, ma rivela. Ci spaventa e ci esalta l’idea che sbattendo le palpebre si sveli una realtà mistificata, un incubo tangibile in cui il macabro convive con l’ordinario. Prima di ripetere il gesto, riprendere il nostro consueto filtro sulla realtà e di cominciare a dimenticare quel brutto – ma davvero cinico, davvero ironico, davvero vero – sogno lucido da cui siamo appena fuggiti.