Fino al 25 gennaio è in corso la ventottesima “Panorama”, ovvero la Biennale del Museo di Arte Moderna di San Paolo, intitolata quest’anno “Mil Graus”: un viaggio attraverso l’arte brasiliana più urgente, sviluppata da artisti di generazioni diverse. E con una curatela che punta all’internazionalità
Videoarte e ancestralità, pittura come azione politica, rituali per demarcare il proprio territorio, installazioni che rimettono a un universo distopico e mescolano estetiche: il ventottesimo “Panorama dell’Arte Brasiliana”, la Biennale del Museo di Arte Moderna di San Paolo, “Mil Graus”, è un viaggio che va oltre l’immagine dentro la quale l’arte brasiliana, negli ultimi tempi, sembrava essere stata confinata. Germano Dushá, curatore insieme a Thiago de Paula Souza e Ariana Nuala, ci spiega: «Originariamente il titolo scelto era “Brasil Mil Graus”, a indicare un paesaggio di urgenza. Infatti, avevamo bisogno di realizzare un’esposizione focalizzata sulla nostra epoca: “Mil Graus”, oltre a rappresentare un’idea di calore estremo, è anche un’espressione popolare che porta la forza della strada nel museo. E, inoltre, mantiene un’ambiguità: i mille gradi possono essere una condizione positiva o, al contrario, identificare qualcosa che sta diventando molto teso, pericoloso, in ogni caso, ardente». In fondo, aggiungiamo noi, il fuoco è l’elemento più trasformativo e il Brasile, nei mesi passati, ha visto grandi parti del proprio territorio nazionale andare in fumo, letteralmente parlando, ed appare chiaro che tutta questa materia lavorata dal calore possa acquisire caratteristiche che si diffondono nel campo della soggettività, della società, della politica e delle esperienze.
Un altro elemento importante è che 29 dei 34 artisti partecipanti — di diverse generazioni, dal 1940 fino agli anni ’90, provenienti da 14 stati brasiliani — hanno realizzato opere commissionate per l’occasione: una biennale, insomma, completamente inedita, ai cui estremi si trovano le due produzioni probabilmente più distopiche ed emblematiche dei tempi moderni, rappresentando quella impronta internazionale che esiste anche nell’arte brasiliana, che molte volte – appunto – è stata confinata in panorami molto più locali: quelle di Jonas Van & Juno B e di Gabriel Massan. Mentre il duo di Fortaleza ci offre un’esperienza di drive-in che potrebbe potenzialmente trasformarsi in una macchina del tempo, Massan – nato nella Baixada Fluminense, vive a Berlino dal 2020 – presenta un Baile de terror (2022-2024) in cui si mescolano figure indecifrabili divise tra danze, lotte, performance, richiamando sia l’universo del baile funk sia una violenza che non appartiene solo al territorio difficile in cui è nato e cresciuto l’artista, ma, al contrario, è diffusa in tutto il mondo: «Questo tipo di lavoro, in questa configurazione, è un’altra possibilità per mostrare l’altra faccia dell’arte brasiliana, quella che può competere a livello internazionale, tra l’altro, in aspetti tecnologici. Credo che questa sia la tappa giusta per raccontare, in modo organico e con uno sguardo universale, la complessità del contemporaneo che esiste anche nel nostro paese», afferma Germano.
Adriano Amaral, che apre la mostra al piano terra del MAC (Il museo di arte contemporanea, che ospita eccezionalmente la Biennale, mentre il Museo di Arte Moderna è in restauro), appartiene a questo asse: mescolando arte e tecnologia, forme apocalittiche e materiali inusuali, la sua Cabeça d’água – installazione pneumatica degna del miglior romanzo di fantascienza – apre la pista di “Mil Graus”, facendo ribollire l’immaginario. Tra gli artisti che non hanno mai rinunciato ad assecondare il proprio fuoco c’è anche il baiano Jayme Fygura, scomparso durante il processo di realizzazione di Panorama, ma di cui la Biennale omaggia il suo lato performativo, la sua storia di “guerriero metropolitano”, come era suo costume camminare per le strade del centro di Salvador, agghindato con una scultura-esoscheletro da cavaliere, un tridente e una maschera di Exu, “disegnando coreografie nei vicoli, trasformando il paesaggio a partire dalla sua scala”, si legge nel bel catalogo che accompagna la Biennale.
Un’altra figura “non codificabile”, è Dona Romana, che nel suo stato, il Tocantins, a partire dal 1990, ha sviluppato – guidata da “tre voci” – un immenso sito dove ha creato monumentali opere in pietra permeate da una grande energia, guadagnandosi, in tutta la regione, notorietà come “Madre”, guaritrice e leader spirituale, oltre che artista. Una storia parallela dell’arte brasiliana che entra in mostra attraverso un’immensa immagine che abbraccia i disegni in pigmenti naturali su pietra di Maria Lira, le ceramiche musicali del pernambucano Mestre Nando, i corpi intrecciati in arenaria di Paulo Pires, uno dei pochi artisti brasiliani coinvolti nella scultura di questo materiale, rivelando figure umane ammassate.
«Questa parte evidenzia anche la magia della terra, attraverso la quale iniziamo a entrare nel mistero della foresta, sia con i disegni di Joseca Mokahesi Yanomami, sia con gli animali di Marina Woisky, testimonianze ibride e vive di metamorfosi planetarie», spiega il curatore. Parlando di memorie della terra, non può mancare un riferimento al Ritual do Bilibeu, che accade una volta all’anno nello stato del Maranhão, dove il popolo Akroá Gamella corre per trenta chilometri per delimitare il proprio territorio: un atto non solo tradizionale, ma che diventa politico contro la continua minaccia e oppressione delle popolazioni indigene.
A proposito delle metamorfosi attraverso cui non solo il Brasile ma l’intero pianeta sta passando, merita una menzione la grande ricerca di Frederico Filippi, il cui focus è sull’“arco della deforestazione” che coinvolge decine di stati brasiliani da nord a sud, investigato come “opera d’arte ambientale”: in questo senso, ritorna potente l’ambiguità di “Mil Graus”, in un’opera che rovesciare il tavolo di quella che è l’ecatombe ecologica, il potere di distruzione dell’uomo nei confronti di se stesso, senza soluzione di continuità, come processo inevitabile. Il lavoro di Filippi ci lascia con diverse domande irrisolte, situandosi anche sul piano della provocazione, a dimostrare l’inesorabilità del potere, fino ad un definitivo punto di rottura.
Ma ce n’è ancora: per esempio, il monumentale dipinto dell’artista acreano Ivan Campos, che rappresenta una foresta fitta di sette metri di lunghezza, dove “con pochi colori, l’artista mescola le profonde stratificazioni e la confusione di scale e prospettive che compongono un ecosistema”. Una conversazione perfetta con i misteriosi dipinti di Lucas Arruda, presentati in una piccola replica di un “eremo”, che conferisce a questa produzione una densa atmosfera di mistero e contemplazione.
Infine, una rivelazione curatoriale, che arriva osservando la fotografia Amoré, 2023, di Labō & Rafaela Kennedy: «Penso che sia stato di fronte a quest’immagine che si è scatenato il pensiero di “Mil Graus”. Per me – afferma Germano – è tutto racchiuso qui: dalla bermuda arcobaleno alla natura, le maschere e i gesti, la capacità di lavorare in connessione con il territorio amazzonico… Un’energia vigorosa, contagiosa, dove il quotidiano si fonde con l’eccezionale, dove la cultura LGBT+ si apre alle mitologie locali. Un tutto ben più che organico». Un’opera la cui potenza sta, inoltre, nella capacità di abbracciare l’identità ibrida del continente brasiliano, in pochi centimetri.
Un ultimo avviso ai naviganti: ognuno può attraversare questo paesaggio prestando attenzione ai lavori che più colpiscono le proprie suggestioni, osservando altre paesaggi che non sono stati citati in questo testo…Dopotutto, in un viaggio, non ci sono soste certe; spesso sono quelle inaspettate a offrire uno spunto per interrogarci sui desideri e sulle idee che accompagnano il nostro cammino.