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Attraversare il labirinto, danzando: la 35ma Biennale di São Paulo

Rommulo Vieira Conceição, O espaço físico pode ser zona de disputa, convenções e certezas falíveis, 35ª Bienal de São Paulo – coreografias do impossível © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo
Sotto il titolo di “Coreografie dell’Impossibile”, la 35ma Biennale di São Paulo è in corso fino al prossimo 4 dicembre negli ambienti del Padiglione Ciccillo Matarazzo progettati da Oscar Niemeyer, al Parque Ibirapuera. Continua, con questa terza puntata, la nostra ricognizione da uno dei Paesi più in vista alla prossima Biennale veneziana

Nata nel 1951, la seconda Biennale più antica del mondo dopo quella di Venezia offre in questa edizione un taglio che cerca di essere anticonformista, pur raccontando le “urgenze del mondo”. Gli artisti a comporre questo florilegio sono 121 in totale, provenienti dal Brasile ma anche da vari stati dell’America Latina e dell’Europa, tra cui Francia, Svizzera e Spagna, Paesi con le cui istituzioni la Biennale ha siglato accordi di collaborazione. Una varietà dovuta, anche, ai motivi della curatela espansa che contraddistingue questa 35ma edizione, composta da Diane Lima, Grada Kilomba, Hélio Menezes e Manuel Borja-Villel, già a capo del Museo Reina Sofia di Madrid.

E attraverso la Biennale le linee di ricerca che l’arte contemporanea sta promuovendo – e con lei la comunicazione – da queste parti si mostrano ancora più marcate: anche in “Coreografie dell’Impossibile”, infatti, ci sono alcuni dei nomi più ricorrenti degli ultimi tempi, uno su tutti Denilson Baniwa, fresco di nomina come curatore del prossimo padiglione brasiliano alla Biennale di Venezia 2024, Hibrahim Mahama, che apre le danze al piano terra del padiglione, portando all’Ibirapuera l’esperienza del Red Clay Studio, lo spazio espositivo e studio che l’artista ha creato a Tamale, Sidney Amaral e la giovanissima Luana Vitra, attualmente in mostra anche all’Instituto Inhotim.
Il focus – e a queste latitudini non può essere altrimenti – è ovviamente dedicato alle poetiche afro-diasporiche, alle contingenze attuali con l’ancestralità, alla tutela e alla “promozione” della cultura indigena, alla potenza delle differenze e agli spazi di comunità. E se diverse volte abbiamo trovato ben più che pretestuose queste tematiche in altri contesti, è chiaro come in una megalopoli dell’America del Sud, in un Paese dal passato a dir poco turbolento, questa urgenza di “cultura come politica” sia più che comprensibile.

Pauline Boudry / Renate Lorenz, Moving Backwards, 2019. Still da video. Courtesy Ellen de Bruijne Projects, Amsterdam e Marcelle Alix, Paris

Ma anziché soffermarci sui diversi noti internazionali, tenteremo un attraversamento della mostra in una metaforica danza, dato che sono proprio le opere che intersecano la produzione visuale con quella video-performativa che contribuiscono a fare di “Coreografie dell’Impossibile” una mostra che per certi versi è audace.
Ipnotiche sono le due sale riservate al duo composto da Pauline Boudry e Renate Lorenz, alla Biennale con il supporto di ProHelvetia: in Moving Backwords la danza non ha un inizio e né una fine, e la leggenda turca del camminare al contrario per depistare il nemico viene traslata in una chiave brillante di musica, corporalità, prese di posizione gestuale dove anche i danzatori sembrano tradire con lo sguardo la meraviglia del movimento senza catene, di una coreografia oltre il limite.
Altro ipnotico personaggio che ci accompagna tra i curiosi meandri del corpo danzante è Luiz De Abreu, censurato coreografo nativo di Salvador (Bahia), che da sempre alimenta il suo immaginario a partire dalle cerimonie dell’Umbanda. In occasione della Biennale è stata reinterpretato il suo O samba do crioulo doido, in cui l’artista riflette sulla possibile identità di una “danza negra”, esacerbando gli stereotipi dell’immaginario bianco e del luogo comune che vuole il Brasile come luogo di una reale “comunione etnica” nonostante i fatti continuino a smentire l’idea.
Una terza via per coreografare l’impossibile è data dalla bella video-installazione di Aline Motta (Niterói, 1974), A água é uma máquina do tempo, dove i frammenti della vita personale dell’artista sulle tracce delle figure femminili della famiglia assumono una dimensione universale dove il liquido, dalla nascita alla morte, dal mare, al sangue all’inchiostro sono utilizzati per un poema dal tempo dilatato attraversando la città di Rio de Janeiro e la sua storia complessa, a sua volta fatta di stratificazioni, soprusi, meraviglia, discendenze arcaiche e energie mai sopite.

A água é uma máquina do tempo, Aline Motta, 35ma Bienal de São Paulo – coreografias do impossível © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

Si sa, però, che la realtà spesso supera la fantasia diventando, appunto, impossibile. E allora è necessario menzionare anche la produzione drammatica di Kamal Aljafari, regista e produttore nato in Palestina nel 1972, che per la Biennale presenta un congiunto di video raccolti in archivi, registrati con cellulare, o sottratti clandestinamente all’esercito israeliano negli anni ’80 che si aprono come una coreografia di una violenza inaudita e inconcepibile, perpetrata da decenni ai danni di un popolo per il quale ogni media occidentale continua a tacere. Ma d’altronde, come ricorda l’artista citando le parole di W.G. Sebald, “Il nostro rapporto con la storia è con immagini già predefinite, impresse nei recessi del nostro cervello, immagini che continuiamo a guardare mentre la verità risiede altrove, in qualche luogo remoto che nessuno ha ancora scoperto”. In questo caso The camera of the despossessed, titolo dell’opera, almeno, ci prova.

The Camera of the Dispossessed, Kamal Aljafari, 35ma Bienal de São Paulo – coreografias do impossível © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

La Biennale, insomma, appare decisamente forte – in controtendenza – sul piano delle immagini in movimento, ma tra le varie aree “installative” ve ne sono alcune che danno forza storica alle attuali ricerche oltre il possibile e il convenzionale: ecco Rubem Valentim (1922-1991) con la serie di grandi sculture bianche che evocano il Tempio di Oxalá, divinità cardine dei culti di matrice africana, realizzate astraendo geometricamente i simboli di culture filosofiche e mistiche, alla costante ricerca di una consapevolezza della terra. C’è poi l’iconico Arthur Bispo do Rosario, presentato anche alla 55ma Biennale veneziana, che per oltre cinquant’anni visse in un istituto psichiatrico di Rio ricamando quotidianamente su sacchi di juta e tela gli avvenimenti del mondo “per non dimenticare” e per presentare questo mastodontico lavoro al cospetto di Dio.

E se mentre il terzo livello è labirintico ai limiti del caotico, mischiando le seduzioni completamente minimaliste delle “partiture” della spagnola Elena Asins e dell’americano Stanley Brouwn con le “esagerazioni” surreali e completamente disallineate del cubano Wilfriedo Lam e delle brasiliane Aurora Cursino Dos Santos e Ubirajara Ferreira Braga, altre due artiste che vissero internate e le cui pitture erano (anche) il risultato di terapia junghiana, le grandi installazioni al secondo piano meritano quasi da sole una visita alla Biennale; noi, ve ne raccontiamo due.

Outres, di Daniel Lie, 35ma Bienal de São Paulo – coreografias do impossível © Levi Fanan / Fundação Bienal de São Paulo

La più impressionante e muscolare è senza ombra di dubbio Outres di Daniel Lie, tedesco, nato nel 1988. Interessato a relazionarsi con elementi “compositivi” che lo stesso artista definisce “oltre-umani”, Outres è un gioco di forza tra terra, tessuti di cotone tinti con curcuma, vasi di argilla, umidità e mazzi di crisantemi decomposti che rilasciano nell’ambiente un forte, straniante, pungente odore mischiato con funghi e fili d’erba nati come per incanto, in una installazione potentissima dove l’effimero e il reale, il senso del tempo e della caducità, la vita e la morte si confondono con il presente.
In ultimo la complessa e brillante installazione di Rommulo Viera Conceição (Salvador, 1968), che affronta il tema dello spazio urbano delle periferie riletto come una commistione tra capitalismo, colonialismo e potere: i mattoni nudi e le piastrelle che compongono la maggior parte delle facciate delle case delle favelas, insieme alle balaustre in stile portoghese, ai carrelli della spesa trascinati dagli abitanti della strada e gli scudi della repressione e della violenza poliziesca sono “sorvegliati” da lampadari che imitano le antiche fatture del Liberty. Una installazione che – nonostante la piacevolezza del colore e la “riconoscibilità” degli elementi di un genius loci ben lontano da quello a cui è abituato il pubblico europeo – fa riferimento alla costruzione e riprogettazione di valori, in quel grande teatro dove talvolta si coreografa anche l’impossibile che è il Brasile. E se a volte la direzione dei passi sembra sfuggire, è innegabile che con “Coreografie dell’Impossibile” si sia tentato almeno un percorso. D’altronde, citando Arthur Bispo do Rosario, Quem nunca passou por uma encruzilhada, não sabe escolher os caminhos (Chi non è mai passato per un bivio, non sa scegliere il cammino).

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