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Art Déco, un sogno poco italiano

Art Decó a Palazzo Reale, ph. Carlotta Coppo
A Palazzo Reale di Milano si celebra, attraverso la mostra “Art Déco. Il trionfo della modernità”, il centenario di un indirizzo estetico assai brillante e seduttivo

Nel 1925, a Parigi, viene inaugurata l’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, che decreta una nuova visione delle arti decorative. L’Art Déco, galassia stilistica che annovera numerose declinazioni “nazionali”, è contraddistinta innanzitutto da un linguaggio decisamente anticlassico, ovvero in netta frattura con il lessico che aveva alimentato il gusto occidentale per secoli. E attua anche un superamento nei confronti della stagione Liberty, che aveva dominato l’architettura e le arti decorative europee pochi anni prima, all’alba del XX secolo.
Gli autori attivi nell’universo Déco mirano alla definizione di un apparato espressivo decisamente moderno, brillante, perfino ridondante in molte soluzioni formali, dove il compiacimento stilistico rappresenta un aspetto irrinunciabile nel disegno di edifici, oggetti per la quotidianità e arredo. Da sempre, i diversi ambiti del progetto, dell’arte e della creatività hanno rispecchiato la weltanschauung conservatrice delle classi egemoni (i monarchi, i papi, la nobiltà e le classi emergenti nei commerci), ma il nuovo gusto è in grado di esprimere, in modo esplosivo e scintillante, lo slancio della nuova borghesia imprenditoriale, ambiziosa, cosmopolita, proiettata verso il futuro. Per la prima volta nella storia dell’Occidente, la classe borghese desidera un mondo estetico del tutto nuovo senza rinunciare alla preziosità e al lusso, strizzando l’occhio alle avanguardie artistiche coeve e al mondo dell’industria. Insomma, si fa strada una nuova idea di “bellezza”, fondata su un insolito equilibrio tra innovazione ed élitarietà.

Art Decó a Palazzo Reale, ph. Carlotta Coppo

Ricordiamo che l’Art Déco si sviluppa in perfetta sincronia con l’affermazione del Movimento Moderno, un comprensorio di esperienze culturali e progettuali dal carattere ancora più sovversivo, orientate a fornire delle risposte, nell’architettura e nei prodotti, alle istanze delle nuove masse delle città industriali. Sebbene attive su due fronti sociali ben distinti (o forse contrapposti), tra le due entità esiste una sorta di osmosi, essendo accomunate dal desiderio di superare ogni dogma proveniente dalla tradizionale e dalla versatilità nell’elaborare nuovi linguaggi.
Per quanto internazionale, i poli del pianeta Déco sono sostanzialmente due: Parigi (con una significativa estroflessione verso Bruxelles) e gli Stati uniti d’America. Ed è proprio oltreoceano che il nuovo stile si impregna di estetica della macchina, in considerazione dello sviluppo tecnologico e industriale, specie in campo siderurgico, che quel luogo stava attraversando. Locomotive streamline disegnate da Henry Dreyfuss, edifici dalle forme dinamiche e avveniristiche e oggetti di nuova generazione (apparecchi radio, accendini, asciugacapelli, lampade e tantissimo altro) sono le espressioni di un presente in profonda trasformazione, in cui la tecnologia ridisegna tutta la realtà, dai grattacieli al paesaggio domestico e materiale, passando attraverso i teatri e le sale cinematografiche di Broadway. Ma qui affiora il primo limite della mostra in corso a Milano: tutta l’avventura del Déco americano viene pressoché ignorata, nonostante la sua portata e la sua potenza figurativa.

Art Decó a Palazzo Reale, ph. Carlotta Coppo

A Parigi, invece, dove si aspira a una dimensione ancor più raffinata ed elegante, il nuovo stile avvolge anche un gran numero di edifici residenziali, oltre ai grandi magazzini e ai palazzi per uffici e altri edifici pubblici: dopo la fase haussmanniana, è l’epoca Déco a sancire definitivamente l’ingresso delle Ville Lumière nella modernità.
Nella mostra “Art Déco. Il trionfo della modernità”, curata da Valerio Terraroli, questo cosmopolitismo e questa complessità non affiorano. Il taglio espositivo, sebbene coinvolga anche qualche elemento di provenienza francese (ad esempio gli splendidi vasi di Camille Fauré), si focalizza sul contesto italiano. Ricordiamo che l’Art Déco si sviluppa nel periodo tra le due guerre, esattamente quando l’Italia è funestata dal Fascismo. All’epoca, in nome dell’autarchia, non solo possibili relazioni culturali e artistiche con altri paesi erano ostacolate, ma non ci risulta che quello stesso nome sia mai stato attribuito al sistema delle arti decorative di stampo italico. E mentre l’Art Déco propriamente detta andava creando un formulario stilistico dai tratti chiaramente riconoscibili, in un clima storico assai rutilante, l’architettura e la manifattura italiana risentivano di quelle forme grevi, severe e solenni tanto propugnate dal Regime. Insomma, ogni intersezione tra le nostre esperienze e quelle internazionali appare abbastanza occasionale e labile, tanto da farci dubitare dell’esistenza di una corrente italiana del Déco. Ogni analogia di questo tipo, a nostro avviso, risulta forzosa. In un paese ancora ruralista, arretrato e provinciale – e tantomeno ricco – ogni “trionfo della modernità” appariva del tutto improbabile.

Art Decó a Palazzo Reale, ph. Carlotta Coppo

La selezione delle opere esposte ha comunque la funzione di riflettere, a colpo d’occhio, lo status del proto-design italiano dell’epoca. Nelle sale – rischiarate a lume di candela su sfondo blu, soluzione in pieno conflitto con l’immaginario fulgente del Déco internazionale – si susseguono le porcellane di Gio Ponti per la Richard-Ginori, i lavori di Tomaso Buzzi, Paolo Venini, Galileo Chini, dell’artista del vetro Vittorio Zecchin, del maestro ebanista Ettore Zaccari, dell’orafo Alfredo Ravasco e di molti altri autori presenti nelle Biennali Internazionali di arti decorative moderne che si sono svolti nella villa Reale di Monza negli anni 1923, 1925, 1927 e 1930. Ma in quelle vetrine appariva un’iconografia ancora intrisa di stilemi classici, di cui i vasi di Gio Ponti sono la massima esemplificazione: tra urne, “conversazioni classiche” e “passeggiate archeologiche”, emerge un rapporto estetizzante e ambiguo con l’ideologia littoria.

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