
Si è aperta pochi giorni fa a Porto Alegre, in Brasile, la quattordicesima Biennale del Mercosul: settantasette artisti, sessanta nuove commissioni e diciotto spazi sparsi per la città. Ecco il nostro report
«Estalo», in portoghese, è uno schiocco di dita, il «botto», la frattura che in un attimo trasforma il corso degli eventi; è una parola mutevole in base ai contesti e alle situazioni, proprio come si presenta la quattordicesima Biennale del Mercosul che si svolge fino al 1° giugno a Porto Alegre, l’ultima metropoli del sud del Brasile, che lo scorso anno ha vissuto la peggiore inondazione di sempre e dal fango si è dovuta rialzare, dimostrando al Paese intero la forza del popolo gaúcho.
La manifestazione, rimandata di sei mesi, è iniziata ufficialmente lo scorso 27 marzo, diffusa in diciotto spazi tra centro storico e altri quartieri della città, in «un ventaglio che si apre in direzioni imprevedibili», come ha sottolineato il capocuratore Raphael Fonseca (1988), curatore della sezione Arte Moderna e Contemporanea Latino-americana al Denver Art Museum, in Colorado (da due anni presente anche nella Power 100 di ArtReview come una delle personalità più influenti del mondo dell’arte internazionale, ndr).
E il ventaglio che schiocca nella più celebre delle figure carnevalesche è stata anche la miccia che ha portato Fonseca a scegliere questo nome: «Nei miei progetti mi piace usare parole singole come titoli, per il loro mantenere un approccio accessibile anche ai non addetti ai lavori. «Estalo» mi è venuto in mente proprio così, vedendo un uomo battere un ventaglio nell’aria: rappresenta un movimento multidirezionale, come la pioggia che cade ovunque. Un’immagine perfetta, anche per evitare un approccio troppo definito», ricorda il capocuratore che è stato nominato alla quattordicesima edizione della Biennale nel marzo del 2023, per costruire la manifestazione che si sarebbe dovuta tenere, appunto, a settembre del 2024.

«La prima questione che ho dovuto affrontare è stata quella di creare un team di lavoro con il quale si potesse instaurare una certa complicità e per questo ho pensato a Thiago Sant’Ana (ex curatore della Biennale della Bahia, progetto oggi terminato, ndr), ma era necessario coinvolgere anche qualcuno di meno familiare: il Brasile spesso soffre per essere un Paese enorme, culturalmente incredibile ma allo stesso tempo molto autoreferenziale.
Di fatto, nonostante questa sia la Biennale dei Paesi che fanno parte del blocco economico del Mercosul, non c’è mai stato un curatore caraibico, e così abbiamo invitato Yina Jiménez Suriel» (curatrice, tra le altre attività, della sezione Opening, dedicata alle giovani gallerie, ad ARCO Madrid, ndr), spiega Fonseca, che rimarca molto sinceramente come la Biennale, come tutte del resto, sia un gioco di incroci, di intenzioni, di rapporti e di collaborazioni, di vincoli economici da rispettare, di variabili e di scommesse. Del resto, anche lavorare post-inondazione è stata una grande sfida, e poter finire a fare “La Biennale del disastro” poteva essere un grande pericolo e un indebolimento non da poco del concetto curatoriale.

L’aspettativa, ci raccontano gli organizzatori, è arrivare alla fine dei 66 giorni di mostra con un totale di un milione di visitatori e, nota bene, nessuno pagante: tutti gli spazi occupati dalla manifestazione, compresa la sede del gruppo bancario Santander o il Museo di Arte dello Stato di Rio Grande do Sul (MARGS) normalmente visitabili con biglietto, sono resi gratuiti per una migliore diffusione, anche turistica, della Biennale.
Porto Alegre, di fatto, equidistante da San Paolo come da Buenos Aires (da entrambe le capitali circa 850 chilometri, ndr) è uno dei destini più interessanti del sud del Brasile, anche per il suo passato di capitale dell’immigrazione italiana e tedesca, e la Biennale del Mercosul – in termini che esulano un poco dalle scelte poetiche e dalle affinità che si possono percepire tra spazi e opere – si connota così anche come una possibilità di riaffermare la capitale gaúcha come meta di svago a poco meno di un anno dalla tragedia che causò più di 180 vittime e quasi 400mila sfollati.
Ma torniamo a «Estalo»: pericolo scampato dunque nell’usare i tragici eventi come materiale dell’immaginario, proprio perché i diciotto «schiocchi» (ogni sede ha un titolo differente, per rimarcare la pluralità delle voci e delle intenzioni) sono realmente quello che di più lontano si può pensare rispetto al lamento di quello che è stato perso, e quanto più vicino a una esplosione per quello che si è recuperato e per il futuro.
E del futuro fanno parte, chiaramente, anche le giovani generazioni e i pubblici più disparati; ecco che si è messo in piedi un dipartimento educativo fortissimo (diretto da Andréa Hygino e Michele Ziegt) di cui fanno parte decine e decine di mediatori, sparsi in tutti gli spazi. Non solo: fa parte della Biennale anche un programma di eventi pubblici gratuiti (curato da Anna Mattos e Marina Feldens) da far impallidire per la quantità esorbitante di incontri, conversazioni, dibattiti, attivazioni di opere, performance, e chi più ne ha più ne metta, seguendo la volontà stessa di riprendersi l’effervescenza della metropoli.

«Ovviamente non crediamo che la Biennale cambierà il mondo, ma arrivare in più luoghi e in aree meno centrali può fare una piccola differenza», ricordano i curatori che ci tengono a specificare anche un’altra questione fondamentale: oltre sessanta opere (gli artisti sono 77) sono state commissionate per l’occasione: «Chiaramente questa modalità genera anche un grande livello di imprevedibilità, sotto molti punti di vista: gestionale, concettuale, tecnico, di produzione. Ma, allo stesso tempo, è il privilegio di poter utilizzare questa Biennale come spazio di sperimentazione, luogo per creare nuove esperienze, specialmente considerando che praticamente tutti gli artisti non brasiliani invitati a partecipare a «Estalo» non avevano mai esposto in Brasile prima d’ora», ricorda Thiago Sant’Ana.
Tra le sedi sicuramente più degne di nota c’è il vecchio Gasometro, marco storico della città di Porto Alegre restituito alla città dopo oltre dieci anni di chiusura, che ha fatto sudare gli addetti ai lavori fino alle ultime battute, aprendo con un piccolo ritardo rispetto alle tempistiche.
Tra gli artisti qui presenti c’è Marcus Deusdedit (1998), formato in architettura che, ci racconta, sta cercando un approccio sempre più stretto nell’interazione tra arte visiva, design e, appunto, lo spazio architettonico: nella sua installazione un grande letto, un tavolino e un sofà razionalista nascondono insidie sanguinarie, aprendo una riflessione anche sulla differenza del tempo libero rispetto alla razzializzazione dell’arredamento. Qui è presente anche una installazione dell’argentino Gabriel Chaile (1985), già alla 59.ma Biennale di Venezia, all’Arsenale, per riflettere sulle interazioni tra cucina e politica.
Una curiosa scoperta sono invece le sculture in legno dell’uruguaiano Ulises Beisso (1958-1996): corpi di donne in puro stile kitsch latino, appartenenti alla serie Doras: sono semidee che combattono il peccato e vogliono riscattare la fantasia, la sessualità, considerando la vergogna come il più stupido dei sentimenti.
Sulla facciata del Museu do Trabalho (Museo del Lavoro, ndr) l’installazione Passatempo di Rochelle Costi (1961-2022), tanto semplice quanto efficacie: disponendo le dieci lettere che danno il titolo all’opera come il quadrante di un orologio e collocando una singola lancetta che ruota senza fermarsi un secondo, letteralmente, l’artista gaúcha ci mette di fronte allo scorrere inesorabile della materia più preziosa e misteriosa della vita: un’intervento che è anche un omaggio alla stessa Costi, una delle figure dell’arte brasiliana contemporanea della quale il Paese ha più sentito la scomparsa negli ultimi anni.

La Fondazione Iberê Camargo in sé varrebbe una visita a Porto Alegre: è dedicata a uno degli artisti brasiliani più internazionali del XX secolo, che da qui ha conquistato il mondo. La sede della Iberê, come la chiamano qui, si trova poco fuori dalla città, sulle rive del fiume Guíba, ed è una meraviglia architettonica progettata da Álvaro Siza (unico esempio dell’architetto portoghese in tutta l’America Latina) che vinse anche il Leone d’Oro per l’Architettura alla Biennale di Venezia del 2002.
«Em um estalar de dedos, você acordará de um sono profundo» (In uno schiocco di dita ti sveglierai da un sonno profondo, ndr) è il titolo di questa sezione dove ogni sala è una piccola personale che racconta bene, anche, dell’attuale sistema dell’arte brasiliano e delle sue voci più influenti.
Apre il percorso, al piano terra, la grande foresta di sculture in legno di Zé Carlos Garcia (1973), uno degli artisti più curiosi del panorama contemporaneo latino-americano, rappresentato qui dalla galleria Portas Villaseca di Rio de Janeiro: Garcia, con una lunga esperienza anche nella pratica del Carnavalesco, ovvero nella creazione delle allegorie che compongono la sfilata delle Scuole di Samba, mescola materiali di diversa provenienza, dai tronchi alle parti di mobili, creando una serie di figure ibride e lontane da un singolo inquadramento, perfettamente in dialogo con le rivisitazioni dell’Astratto di Camargo.
Da non perdere le ceramiche di Julia Isídrez (1967), artista paraguaiana che lavora con la galleria Gomide & Co. Collezionata anche da Fondation Cartier e esposta alla Biennale di Venezia del 2024 e a dOCUMENTA 13, tra le altre, Isídrez produce seguendo le tecniche dei suoi antenati guaraní, e tutto il lavoro viene realizzato in collaborazione con familiari e amici nella sua Casa Museo in Itá, dove l’artista tiene anche corsi didattici.
Letícia Lopes (1988), rappresentata dalla giovane galleria Verve di San Paolo, ci riporta a un onirico mondo sotto forma di pittura dove si mescolano farfalle e simboli ancestrali, figure nere di felini in simbiosi con altrettante figure femminili, maschere, atmosfere rarefatte e trasognate; Rodrigo Cass (1983), che lavora con Fortes d’Aloia e Gabriel, porta in scena forse una delle installazioni più curiose di questa Biennale: mischiando scultura e video, creando poligoni tridimensionali che ospitano immagini in movimento e che dialogano con gli angoli, i pieni e i vuoti e i riflessi della Fondazione Camargo, Cass riflette sulle identità del linguaggio e le sue ambiguità.

Alla Fondazione Ecarta, un piccolo déjà-vu veneziano: Freddy Mamami (1971), artista boliviano di La Paz che utilizza colori brillanti, forme geometriche e ornamentali per ricreare una estetica contemporanea neo-andina, dipinge la facciata del caseggiato che ospita l’istituzione: lo scenario urbano cambia con verdi, rossi, gialli accesi, e ricorda l’intervento del collettivo MAHKU sul Padiglione Centrale della Biennale di Venezia, lo scorso anno.
Al MARGS altre due presenze per la prima volta in Brasile: la grande vasca di terra respirante dell’artista indiano Amol K. Patil (1987) Reminescence, che ricorda molto da vicino il progetto che l’artista realizzò in occasione della sua partecipazione a dOCUMENTA 15, curata da Ruangrupa, nel 2022 e lo Storage drama dell’artista turco Özgür Kar (1992), esposto anche alla Biennale di Berlino, sempre nel 2022, che stavolta mette i propri scheletri-musicisti in una serie di casse disposte nello spazio. Qui anche Heitor dos Prazeres (1889-1966), nome storico dell’avanguardia brasiliana del secolo scorso, e una carriera solcata dall’intersezione di musica, pittura, disegni, raccontando tradizioni e flussi migratori, la disparità sociale e la vita quotidiana, in una volontà di creare un’identità genuinamente brasiliana, di cui il quadro «Frevo», 1964, (tipico ballo originario dello stato di Pernambuco, ndr) fa parte.

Più nella dimensione di un playground, anche in funzione della propria identità dell’edificio come area di riposo nei momenti liberi dei lavoratori del centro storico, allo Espaço Força e Luz, Fátima Rodriguez invita non solo a sentirsi in casa togliendosi le scarpe su un tappeto di dimensioni ambientale da lei stessa cucito, ma anche a cantare con una macchina del karaoke tipica del divertimento dei giovani latini, mentre Ad Minoliti crea una pittura murale dalle geometrie giocose e dai colori molto politici, contrastando con le percezioni tra quelle che sono le forme di potere e i loro effetti anche subliminali.
Infine, all’Istituto Ling, il lavoro site-specific di Gervane de Paula (1963), artista che da sempre ha scelto di vivere a Cuiabá, città dello stato di Mato Grosso, lontana dai riflettori di Rio e San Paolo, perseguendo una poetica che ha a tutto a che vedere con l’ambiente, il paesaggio, l’attenzione alla natura e le devastanti politiche agropecuarie della regione. Un «estalo» per chi vuole andare oltre la stereotipata immagine dei tropici.













