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Luci e ombre di Hammershøi, tra claustrofobia e realismo cinematografico

Vilhelm Hammershøi, Riposo, 1905. Parigi, Musée d’Orsay © RMN-Grand Palais / foto Martine Beck-Coppola / Dist. Foto Scala, Firenze
La prima retrospettiva italiana di Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864-1916) a Palazzo Roverella, Rovigo, è una tappa necessaria per approfondire le relazioni del pittore danese, che in vita fu tra i più grandi della sua epoca, con l’Italia e altri paesi del Nord Europa. In questa cornice fuori dal tempo, incantano i suoi interni silenti “post-fiamminghi”, luoghi intimisti e “nevrastenici” inscritti in geometrie di luce nordica, dall’atmosfera sospesa e rarefatta, come si vede in alcuni film dei registi Carl Theodor Dreyer e Ingmar Bergman.

La mostra presenta quattordici su ottantaquattro opere del pittore danese, selezionate dal curatore Paolo Bolpagni, intitolata “Hammershøi e i pittori del silenzio tra Nord Europa e l’Italia”, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, con il sostegno di Banca Intesa Sanpaolo, il patrocinio dell’Ambasciata di Danimarca in Italia e prodotta da Dario Cimorelli Editore. La mostra è originale per il tema, il silenzio, e anche per il taglio comparativo, poiché è incentrata sul confronto delle sue opere con quelle di altri autori attivi coevi provenienti dall’Italia, Scandinavia, Francia e Belgio.

Le sue atmosfere da incubo imminente, che mascherano angosce esistenziali, lo rendono ai nostri occhi contemporaneo, evocando per associazione le rarefatte atmosfere di Giorgio Morandi, Felice Casorati e Domenico Gnoli, tanto per citare alcuni maestri del colore e del ‘minimalismo’ compositivo.

Vilhelm Hammershøi, Interno della chiesa di Santo Stefano Rotondo a Roma, 1902. Odense, Kunstmuseum Brandts © Kunstmuseum Brandts

Hammershøi, figlio di una famiglia alto-borghese e colta, ha frequentato l’Accademia Reale Danese di Belle Arti, dotato nel disegno a carboncino fin da ragazzo, come si vede in Studio di nudo maschile visto di spalle (1884 circa). Attivo a cavallo tra Ottocento e Novecento, ha avuto maestri eccellenti: prima è stato allievo di Niels Christian Kierkegaard e Holger Gronvold, poi di Frederik Vermehren alla Kongelige Danske Kunstakademi, e infine di Peder Severin Krøyer, tra i massimi esponenti della Scuola di Skagen, una declinazione scandinava dell’Impressionismo francese, ma senza la frammentazione del colore. Vilhelm non è l’unico artista in famiglia: c’è anche il fratello minore, Svend Hammershøi (1873-1948), pittore e ceramista, con il quale condivideva la scelta dei colori, incentrata su toni bruni e grigi, quasi monocromi, ma non i soggetti: stanze, pareti, mobili e anche paesaggi invernali, boschi, alberi scarnificati.

Hammershøi, schivo e solitario, dalla complessa personalità, debutta nel 1885, ma il suo interesse per gli interni domestici inizia a prendere forma nel 1888, undici anni prima del suo trasferimento nell’appartamento di Strandgade, l’anno in cui conosce il dentista Alfred Bramsen, che diventerà il suo amico e principale collezionista e mecenate. Il suo primo interno è La porta bianca (Interno con vecchia stufa), in cui una porta bianca aperta costituisce il passaggio da un ambiente in penombra con stufa a un corridoio luminoso, su cui si affaccia un’altra porta bianca, chiusa, come simbolo di passaggio dall’ombra alla luce nordica e soffusa. Tutta la sua pittura si snoda intorno all’angoscia esistenziale; il male sottile che la psicologia, allora agli albori, non ha ancora individuato scientificamente, ovattato nel silenzio delle stanze del suo appartamento, situato al 30 di Strandgade, al primo piano di un edificio seicentesco nel quartiere elegante Christianshavn a Copenaghen, dove ha vissuto con la moglie Ida Ilsted dal 1898 al 1909.

Vilhelm Hammershøi, Luce del sole nel salotto III, 1900 circa. Stoccolma, Nationalmuseum
© Nationalmuseum / foto Cecilia Heisser

La moglie e musa dell’artista, affetta da una grave malattia mentale, è ritratta di spalle al pianoforte e in tre altri dipinti in ambienti austeri dalle pareti spoglie della loro abitazione in stanze silenziose che celano drammi personali, incomprensioni, dove le ore pesano e sembrano non passare mai, là dove la luce prende forma geometrica e compositiva per dare voce alla sua poetica del vuoto.

A lungo dimenticato, Hammershøi ha attualmente raggiunto quotazioni vertiginose sul mercato internazionale. Basti dire che nel 2012, Sotheby’s Londra ha venduto all’asta il dipinto Ida Laeser et brev (Ida mentre legge una lettera) per 1.721.250 sterline, un record per un pittore danese fino a qualche anno fa ancora poco conosciuto in Italia.

Tra le altre opere, restano impresse nella memoria Luce del sole nel salotto di Stoccolma (1900) o Sunshine in the Darving Room III. Strandgade 30 (1903), Interno con divano (1907), dipinti ad olio di un genio della luce che sarebbe piaciuto a Stanley Kubrick. Lungo il percorso espositivo fluttuano nello spazio una libreria, un divano, una sedia, un armadio, un mobile su cui è adagiato un busto in gesso, come si trova nelle case borghesi, porte aperte irrorate di luce naturale, finestre, dettagli d’arredo che conducono lo spettatore dipinto dopo dipinto nel suo piccolo mondo immobile, tra i segreti del suo appartamento dall’ordinaria ‘metafisica’ quotidiana, intriso di apparente tranquillità e mistero, dove da un momento all’altro potrebbe succedere qualcosa, o forse è già accaduto, chissà!

Hammershøi, definito dalla critica l’inventore del ‘ritratto di spalle’, ha viaggiato molto in Italia, Inghilterra e Paesi Bassi per conoscere la pittura paesaggistica del Nord Europa, ma la sua poetica intimista si snoda intorno a linee geometriche tracciate dai mobili d’arredo, compresi tra porte e finestre del suo appartamento, rivelando l’interesse all’architettura degli spazi ‘disegnati’ dalla luce, dal colore delle cose come presupposto di composizione formale, mirando all’essenza del vuoto. Il tema degli interni casalinghi è un classico della pittura olandese, fiamminga e danese, e in Italia matura nel Novecento con il cosiddetto Realismo Magico (1925), ma quelli del pittore danese hanno una luce diversa, un’atmosfera silente e nevrotica, fuori dal tempo e di taglio cinematografico.

Vilhelm Hammershøi, La porta bianca (Interno con vecchia stufa), 1888. Copenaghen, SMK – Statens Museum for Kunst © SMK, the National Gallery of Denmark. SMK / foto Jakob Skou-Hansen

Il ritratto di spalle della moglie con i capelli raccolti e la nuca scoperta nel dipinto Riposo (1905), immersa nella quiete opprimente e in diverse tonalità di grigio, sembra il manifesto dell’incomunicabilità di un uomo chiuso nei silenziosi luoghi dell’anima, in stanze claustrofobiche abitate dalla solitudine, dove tutto è immobile, seppure irrorate dalla luce naturale proveniente dalle finestre o dalle porte aperte sul vuoto.

Il silenzio è tangibile in tutti i suoi dipinti esposti in mostra, nei suoi paesaggi dell’anima, sfumature di grigi e colori bruni, luoghi privi di presenze umane. Tuttavia, dal confronto tra le opere di Hammershøi e quelle di altri autori europei, possiamo riconoscere le sue fonti di ispirazione, in primis i maestri della pittura olandese-fiamminga, e in particolare Jan Vermeer, di cui Hammershøi imita soggetti e una tavolozza cromatica contenuta e rigorosa. Inoltre, troviamo l’influenza di Jan Jacob Schenchel, straordinario nel rappresentare interni disadorni di chiese e edifici, e soprattutto della cosiddetta Scuola dell’Aja (collocabile tra il 1860 e il 1890). In mostra, sono presenti opere di Josef Israels, Johan Hendrick Weissenbruch e Bernard Blommers (esponenti della Scuola dell’Aja), così come di altri autori italiani, come Oscar Ghiglia, che, dopo aver visto un dipinto di Hammershøi alla Biennale di Venezia del 1903, trasformerà i luoghi domestici in ambientazioni predilette delle sue opere.

Incuriosiscono anche altri autori italiani interessati alle vedute urbane deserte e ai notturni desolati, che trovano un riferimento estetico in Gabriele D’Annunzio, come per esempio Francesco Vitalini, Mario de Maria, Domenico Baccarini e Giuseppe Ugonia, ma nessuno di loro brilla come le suggestive vedute del melanconico pittore danese. Il percorso espositivo si chiude con una selezione di immagini che il fotografo spagnolo Andrés Gallego (Melilla, 1983) ha dedicato a Hammershøi, in cui pittura e fotografia sono simbiotiche e convergenti, dando vita a paesaggi dell’enigma e dell’architettura effimera della luce.

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