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Immagini di città #3: Gianluigi Ricuperati e il modello trasversale

La fetta di Polenta in Vanchiglia -Alessandro Antonelli, 1840, detta anche "Fetta di Polenta"
Gianluigi Ricuperati con l’artista Luisa Rabbia, ph: Gianluca Grandinetti (proprio per esaltare la volontà di lavorare insieme alle persone, nell’ottica di progetti condivisi, Ricuperati ha scelto per questo articolo una foto insieme con un’artista che ammira come Luisa Rabbia)
Ispirata ai celebri reportage di Walter Benjamin dedicati alle città in cui gli capitava di soggiornare, per la terza puntata di “Immagini di città” ritorniamo a Torino, dove Maria Cristina Strati intervista Gianluigi Ricuperati

Questa rubrica prende le mosse dal libro Immagini di città di Benjamin. Fino ad ora ho intervistato due galleristi e ho chiesto loro qualcosa sul loro spazio espositivo. A te chiedo quali sono i luoghi della città che ti ispirano di più, dal punto di vista artistico e personale. O se ci sono dei luoghi dell’arte, a Torino, che senti particolarmente tuoi…
Ci sono dei luoghi che sento miei che hanno a che fare con il mondo della vita, più che dell’arte. Devo dire che ho frequentato a lungo Torino prima di andare via poi di ritornare, e ho vissuto in tante zone diverse. Sono cresciuto in una zona a cui sono molto legato, un piccolo quartiere residenziale a Mirafiori con una strana storia urbanistica, che si chiama Centro Europa. Doveva essere un posto per i boomers di allora, poi è scoppiato il 68 e di fatto è rimasto una sorta di luogo segregato rispetto a Mirafiori, dove c’erano famiglie di dottori, dirigenti di banca, in un contesto invece popolare. Uscivi fuori da questa zona e venivi in contatto con la zona delle case popolari. Poi c’è stato un momento legato al quartiere Crocetta, che dura ancora adesso perché la casa di mio papà è lì. Ho vissuto dieci, quindici anni in quella zona. È stato un posto importante perché lì è morta mia mamma, insomma ci sono tante cose, l’adolescenza, i primi amori… il momento dei vent’anni. Poi la zona importante è diventata quella del centro, in particolare Piazza Palazzo di Città dove ho una casa in cui ho abitato con la mia prima compagna fino al 2016 2017, e lì abbiamo avuto una figlia. Dopo di che c’è stata una seconda casa in cui ho vissuto a lungo in via Santa Giulia, sul fiume, per cui Torino per me era diventata la città del fiume. Era una casa bellissima. Adesso abbiamo avuto questo ulteriore spostamento, sempre lungo il fiume ma dall’altra parte. Per cui devo dire che non ho una sola immagine, ma tante immagini di posti molto diversi tra di loro che si interlacciano e si mescolano e che non sono legati all’arte, ma a dei grumi di esistenza…

Ricordo che nella casa in via Santa Giulia facevi delle piccole mostre d’arte. Ti capita ancora nella casa nuova?
No, perché è una casa più piccola e meno adatta a questo tipo di situazioni. Poi con i bambini sono cambiate molte cose. C’è una città dei bambini, una città dei ragazzi… ci sono tante città tutte insieme e ognuno vive tante vite urbane, come ognuno vive tante vite musicali. Vivi la vita musicale dei tuoi figli, quella dei tuoi fratelli maggiori, la tua… e così è la vita urbana. Fai tanti esperimenti, tante promenade sia fisiche che mentali. Poi a me piace molto deambulare, cioè muovermi. Mi piace molto girare con lo scooter per la città e quindi per me la città è un continuo movimento.

Tipo Nanni Moretti in Caro Diario più che il flâneur di Benjamin, quindi…
A me piace girare, fermarmi e ripartire, non sono una persona tanto stanziale. Per lavoro scrivo anche nei bar, nei caffè, per cui ti potrei dire che per me la città dell’arte e della cultura è anche la città dei caffè e dei posti dove si può essere isolati, ma con delle persone intorno.

E invece dal punto di vista dell’arte quali sono i tuoi punti, o le tue esperienze preferite, su Torino?
Come luoghi dell’arte, in maniera caotica, ti posso rispondere la galleria di Norma Mangione (adesso Archivio Salvo ndr), la Fetta di Polenta di Franco Noero e adesso il Museo dell’Automobile, dove faccio tante cose. Ci sono anche delle librerie, che sono molto importanti. E poi c’è questo luogo di via della Rocca dove avevamo fatto il progetto Faust, una specie di biblioteca notturna. Quella, per esempio, è stata una bella esperienza. Oppure il Residence Du Parc. Quello per me è un posto legato a una certa storia dell’arte torinese che mi interessa…

 

La fetta di Polenta in Vanchiglia -Alessandro Antonelli, 1840, detta anche “Fetta di Polenta”

Volevo appunto chiederti del Mauto, dove tu curi la parte culturale e artistica.
Beh, diciamo che quello che stiamo facendo lì da quando c’è Lorenza Bravetta è un bellissimo percorso di ampliamento, che pur rispettando la mission di parlare di automobili, rende giustizia al fatto che l’automobile è un discorso comune, che tocca tutti. Tutti hanno l’automobile e la usano, o l’hanno avuta, o ne hanno dei ricordi. È un discorso semiologico più che specialistico. È un segno, l’automobile. E vendendolo come segno tu puoi affrontarlo dal punto di vista di altri segni, cioè di altri linguaggi… C’è una certa coerenza da questo punto di vista, una certa logica. Abbiamo portato tante cose belle lì dentro e continueremo a farlo. È proprio un percorso che si sta sviluppando.

Vuoi raccontarmi qualcuno di questi progetti?
Beh, sicuramente l’aver portato il video di Chris Burden (Ode to Santos Dumond, del 2015 ndr) è una cosa molto importante. Abbiamo fatto una sorta di maratona d’idee legata all’auto dal punto di vista più ampio e multidisciplinare con le mostre recenti, che ha curato Guido Costa, e con quelle che ci saranno. Nella prossima sarà coinvolto Cilli come co -curatore. Mi piace il lavoro al MAUTO, perché ufficialmente ho questo ruolo di curatore di public program e programmi speciali, ma in realtà è un dialogo costante con Lorenza Bravetta che sfrutta anche il fatto che ho tante competenze diverse in diversi ambiti. Forse passioni, più che competenze, e conoscenze sia nel senso di nozioni, di storia e di cultura, ma anche in senso di relazioni. Per cui spesso, partendo dalle necessità del museo, apriamo la prospettiva e portiamo nuove cose, qualche nuovo architetto che può pensare agli allestimenti, qualche nuovo artista… Oggi, per esempio, abbiamo fatto una bellissima conversazione con Luciano Chessa, con cui faremo un’installazione di musica contemporanea poco prima del gran premio di Monaco. Questa installazione avrà a che fare con la città di Montecarlo, con il suono delle auto. È uno stranissimo, ma benvenuto matrimonio tra musica contemporanea e motorsport. Il Mauto per me è un’occasione per mescolare un pochino le carte e fare quello che comunque faccio sempre. Per esempio adesso sto seguendo come curatore, anche con la nostra rivista Nova express, una mostra per i sessant’anni di K-way a Milano. Qui abbiamo coinvolto tredici artisti internazionali e poi abbiamo fatto una mostra di archivio. Abbiamo chiesto ad Agostino Iacurci di fare una stanza dove c’è stata la sfilata di k-way. Per me questi attraversamenti sono diventati un mestiere. Per certi versi un passeur della conoscenza…

Beh, tu sei un personaggio un po’ trasversale. Sei scrittore, curatore…
A me piace attraversare. Infatti non è un caso che l’antologia di letteratura per le scuole medie che ho curato con Chiara Sivieri per la Lattes si chiami proprio Attraversare. Poi adesso sto collaborando con il comitato olimpico delle Special Olympics con Patrizia Sandretto, e qui stiamo mettendo insieme sport per persone con disabilità mentali e arte. Un po’ una storia dell’arte irregolare. Metto l’arte in relazione con vari mondi, utilizzando la scrittura e la parola, sia la parola letteraria sia quella narrativa che serve per comunicare. Penso che padroneggiare le parole, o servirle e padroneggiarle insieme, sia un modo molto utile e funzionale, ma anche bello di lavorare. Bellezza e funzionalità, per rendere giustizia della propria curiosità e anche per rendere comprensibili mondi diversi reciprocamente e a volte far succedere delle cose che altrimenti non accadrebbero. Io dico che con usando bene le parole puoi convincere le persone di quasi qualsiasi cosa, perché le parole non sono staccate dalle cose.

Le parole o il racconto?
Le parole, il racconto, l’energia che passa attraverso il fatto che tu ti prendi la responsabilità delle parole. Non nel senso di fare come un incantatore di serpenti che va e convince in modo truffaldino. Però ci metti la faccia, cerchi di trovare degli accordi, delle possibilità. Alla fine la parola responsabilità, cioè abilità a rispondere è una chiave importante. A volte basta smontare le parole per riuscire a comprendere non solo quello che hai davanti, ma anche quello che devi fare…

Tu sei un personaggio molto stimato nell’ambiente torinese e non. Ma questo tuo modo di lavorare trasversale, molto sulle connessioni, secondo te è una caratteristica torinese?
Guarda, da un certo punto di vista no. Però da un altro sì. Mi spiego, credo che in modo più superficiale potrei dirti di no, perché Torino è una città fordista per eccellenza. Però in realtà credo di sì, perché proprio qui a Torino ci sono state grandissime personalità della connessione. Mi viene in mente Carlo Mollino, naturalmente, ma tanti altri. Giulio Einaudi era una persona sicuramente multidisciplinare…

 

Sta un po’ dalla parte dell’aspetto città laboratorio…
Sì, qui c’è questa genialità del fare cultura in modo veramente visionario… a Torino la cultura ha connessioni con ambienti che non ti aspetti. C’è un modo di abitare personalità diverse. Credo che Torino, proprio perché è così fordista nell’animo, possa permettersi poi per l’inevitabilità delle contraddizioni che segue il giorno e la notte, cose molto diverse. Di notte cambia e di notte viviamo qualcosa che non siamo di giorno. È come il lato interno del guanto… esternamente il guanto fa la sua parte, ma poi internamente il lato interno ha dei misteri…

Una specie di enantiodromia…
Credo di sì. Per cui sicuramente è faticoso, e una volta era considerata una cosa addirittura negativa. All’università l’aggettivo eclettico era considerato quasi un insulto…

Tu da che formazione vieni?
Lettere. Però devo dirti che fin dai primi piani di studi all’università ho messo insieme arte, musica, cinema e letteratura. L’unica cosa che volevo evitare in ogni modo era la filologia, tutte queste cose che hanno un elemento scientifico, che è anche molto avventuroso, ma che però non è il mio. Adesso con il tempo mi sono un po’ più applicato, ma mi costa una fatica enorme essere preciso… tutte le mie grandi passioni letterarie sono persone che hanno attraversato territori di confine, come Maurice Blanchot, Edmond Jabés… sono persone con un elemento di prosa e di scrittura molto forte…

I francesi hanno molto l’idea della bella scrittura, anche in filosofia…
A me piacciono molto i filosofi che scrivono molto, mi piace molto Michel Serres. Mi piace l’idea della prosa della scrittura, più ancora della narrazione. Per me la parola cambia la realtà, per questo puoi persuadere con le parole, come dicevo prima, ma in senso positivo. Non per ingannare, ma per il piacere di portare una persona a credere in qualcosa in cui credi anche tu. La parola è qualcosa che esiste, non solo un dato in un codice, è quasi come un oggetto…

Come vedi tu la situazione delle arti visive a Torino? Una volta dicevamo di essere la capitale dell’arte contemporanea…
Mah, io credo che ci sia ancora una situazione di grandissima qualità. Oggi forse non è l’unica capitale, ma è un posto molto significativo per l’arte e soprattutto è un posto dove gli artisti vengono a vivere. Questa è una cosa molto importante, forse la più importante di tutte. Perché il motivo vero per cui ho iniziato a interessarmi dell’arte non era tanto per le opere, ma per gli artisti. Non ho un occhio morfologico sulle opere, analitico, da critico o storico dell’arte. Ho un occhio narrativo, fenomenologico se vogliamo, ma comunque un occhio rotondo, un colpo d’occhio rotondo che va ad intersecare la vita delle persone con una visione altra… Per questo che mi sono sempre associato, ho dialogato con grandi curatori e curatrici che hanno sicuramente un occhio migliore del mio. Raramente io ho scoperto un talento visivo, però tante volte ho dato, nel mio piccolo, una linfa diversa a conversazioni con talenti visivi scoperti da altri. Questo per dirti che soprattutto ho una passione esistenziale per gli artisti, gli artisti in generale. Anche se ci sono delle eccezioni, certamente trovo che gli artisti siano persone umanamente migliori della media delle persone…

Perché?
Perché credono in quello che fanno, perché credono in una cosa che è abbastanza controcorrente rispetto al senso comune; quindi, già arrivare a crederci è importante… In generale ho una passione per le persone che credono in quello che fanno, che credono in qualcosa… è molto importante che una persona creda in una cosa, non importa che cosa sia, né quanto e quando il mondo gli vada o no a favore. Questa per me è una cosa quasi commovente. Anche perché penso che la grande tragedia del nostro tempo anche dal punt odi vista politico, non sia tanto il ritorno di dittature, fascismi e pseudofascismi di ritorno, naturalmente anche questo… Ma è grave soprattutto il fatto che molte persone a livello apicale sono chiaramente persone che non credono in niente, se non nella propria stessa presenza. Questa cosa di non credere in niente altro che in sé stessi è una tendenza naturale di tutti gli esseri umani, per certi versi anche consustanziale alla sopravvivenza, perciò non è una cosa che io condanno in senso assoluto. È comprensibile e umana, però penso che dobbiamo anche combatterla con tutta la storia dell’intelletto, dello spirito, se vuoi. Come si diceva una volta andando nella direzione opposta, cioè puntellando questa tendenza a non credere in null’altro che in sé stessi attraverso la creazione di sistemi di pensiero, di principi di valori di idee e di ideali che siano esterni a sé stessi, per i quali si è disposti addirittura a morire. Oggi c’è una specie di neonichilismo… Di tutta la vicenda degli ultimi anni, per esempio, a me la cosa che ha colpito di più è come tutto un mondo, tutti i grandi capi dei social media, abbiano cambiato completamente idea rispetto a un’agenda che loro stessi avevano creato. E questo solo sulla base del fatto che c’era un nuovo capo. Neanche per denaro, perché per loro non è più un problema il denaro, ma semplicemente per una sorta di adattamento al potere. Lo stesso Trump, sembra che l’unica cosa in cui creda sia sé stesso, questo lo si vede chiaramente vedendo quel video che girava sui social…

Che poi quando si dice sé stessi si intende la propria maschera…
Sì, ma non si sa… è quello il mistero ed è anche un mistero tragico. Però dispiace perché in fondo questo sistema di valori e principi, credere nella democrazia, nell’ordine liberale nei diritti umani piuttosto che in qualsiasi altra cosa, anche credere in cose sbagliate al limite, sono cose che trascendono la propria carne e quindi danno un senso alla vita. Questa piccola deviazione per dirti che gli artisti secondo me, in questo contesto, sono una fonte di ossigeno. E il fatto che a Torino vengano a vivere tanti giovani artisti penso che porti ossigeno. E poi a Torino ci sono delle figure di grandissima qualità, anche nelle istituzioni. Patrizia Sandretto è indubbiamente una persona che ha dedicato la propria vita con un’energia encomiabile a delle cose che hanno lasciato un segno anche per altre persone, e avrebbe potuto non farlo. È una figura di caratura internazionale che abbiamo qua e che ama questo territorio. Perché, tornando alla tua domanda iniziale, io penso che di una città devi amare le pietre, gli angoli, lo spazio tra le pietre. La città è lo spazio tra queste specie di monumenti che a volte vengono sostituiti nel tempo. Io credo che ci sia questo amore quasi fisico e spirituale per un luogo. Ed è una cosa che trascende il senso logico. Però noi abbiamo qua a Torino delle persone che ci credono veramente, delle figure anche molto speciali appunto come Lorenza Bravetta, che dirige il Mauto. Una donna che viene non dall’auto che dirige il Museo dell’automobile, che è bellissimo, un museo speciale, molto popolare.

Tu hai portato lì delle cose di altissimo livello…
Grazie a lei! (Lorenza Bravetta ndr). Ma poi ci sono anche altri, la nuova direzione del Castello di Rivoli, per esempio. E poi ci sono tante realtà indipendenti di grande qualità. Io vedo una situazione abbastanza vibrante, con pochi aspetti negativi…

Prima hai detto che ti piacciono gli artisti perché ti piacciono le persone che credono in qualcosa. Ti faccio una domanda tipo Belve… e tu in che cosa credi?
Beh, io provo a credere in alcune delle cose che faccio. Per esempio credo nel dialogo tra le discipline, credo nella poesia, credo nella parola che si confronta con l’arte visiva. Credo anche nelle persone, credo molto nei bambini, non solo nei miei, in generale. Credo molto nelle donne. Penso che sia un momento molto importante, questo, perché al di là degli inevitabili scalciamenti di un sistema patriarcale che vede minacciato o addirittura eliminato il proprio potere, comunque la tendenza degli ultimi trenta quarant’anni è che finalmente stiamo cambiando direzione, quindi io credo in questo… E credo negli artisti.

 

Mauto, Torino

Senti, io so che noi condividiamo una passione profonda per il grande David Bowie
Beh sì…

Vorrei proporti di commentare una sua frase. In un’intervista di fine anni settanta Bowie disse che essere un artista vuol dire essere disfunzionale…
Beh io credo che sia vero. da un certo punto di vista. Per questo trovo molto interessanti queste figure irregolari. Trovo molto interessante la non tanto la malattia mentale, ma queste figure della disabilità mentale… perché penso che in quello sguardo strano, in quello sguardo speciale che sta quasi sepolto vivo dentro le persone, ci sia qualcosa…

Bowie mette tra i suoi cento libri preferiti L’io diviso di Laing… Per Laing tutti quelli che non si adattano al sistema sono considerati “matti” perché cercano vie di adattamento diverse… senza romanticizzare la malattia, gli artisti sono persone che cercano di far quadrare qualcosa che non gli quadra…
Certo, io credo che ci sia soprattutto un desiderio negli artisti… la disfunzionalità è un modo. Molte opere d’arte sono una forma potentemente creativa di relazionarsi con una sorta di impotenza di creare. Per esempio Fellini in 8 e 1/2, che è uno dei miei film preferiti, parla proprio di quello. Christian Metz diceva che 8 e 1/2 è un film potentemente creativo sull’impotenza di creare. L’impotenza di creare è parte della disfunzionalità di molti artisti, perché solo gli artisti non di alto profilo creano a macchinetta… C’è sempre un dubbio, una lotta. Poi c’è anche una felicità, c’è un desiderio… ci sono tante cose. Non si possono dare delle regole generali, però, sì, penso che la disfunzionalità sia interessante. Non è l’unica caratteristica, però. Ci sono anche persone estremamente funzionali che trovano invece una poesia in tutto ciò che funziona. Jacques Tati, per esempio, è stato un grande cantore di cose molto meccaniche. A me piace molto la poesia della vita quotidiana. Anzi, aggiungo una cosa. Credo molto nella bellezza di una giornata riuscita, come dice Peter Handke. Il suo Saggio su una giornata riuscita è uno dei libri più belli che ha scritto, secondo me, e lui è uno dei miei scrittori preferiti, al netto della sua scarsa comprensione dei problemi geopolitici. Penso alla questione della ex Jugoslavia… Però Handke è veramente un grande scrittore e ha scritto questo saggio molto bello. Io credo molto nella perfezione del tempo presente, e mi piace l’imperfezione anche…

Mi hai fatto venire in mente un autore che ti avevo sentito citare in altro contesto, Eric Rohmer
Rohmer sicuramente è oggi meno conosciuto di un tempo, negli anni ottanta andava più di moda. Io credo molto in queste cose, infatti la mostra che facciamo per k-way è tutta sulla vita quotidiana. Perché il k-way è un oggetto popolare, semplice. È un progetto molto bello perché ci occupiamo sia di design, sia di arte. Nella parte di design abbiamo coinvolto diversi di marchi che producono oggetti della vita quotidiana, come Post-it, Scotch, Rollerblade, Pongo e abbiamo invitato gli artisti, a volte usando questi stessi materiali, ad inventare qualcosa sulla bellezza e sulla poesia della vita quotidiana, sul suo lato poetico…

Questo è interessante, anche perché probabilmente mette insieme anche l’aspetto economico… immagino siano sponsor…
No, in questo caso solo k-way è sponsor…

Però c’è qualcosa che ha a che fare con un brand che va a dialogare con l’arte…
Questa è una parte della mia vita, per me è molto importante. La mia rivista Nova express vive con il supporto di marchi

Visto che abbiamo parlato dell’arte e degli eventi culturali in cui tu riesci a esaltare l’aspetto poetico e di ricerca contemporaneamente avendo a che fare con situazioni diverse da quelle museali, come il mondo dei brand, ti voglio chiedere una cosa. Secondo te c’è il pericolo, qui e altrove, che si creino delle ambiguità… Che, insomma, venga fuori quella che Brecht definiva un’arte gastronomica?
Sicuramente c’è sempre il rischio di andare verso quella direzione lì. È un rischio con il quale bisogna confrontarsi inevitabilmente. Io devo dire la verità, ho un certo fiuto, una certa incapacità di andare verso situazioni eccessivamente pop. C’è una soglia per cui riconosco e tendo a non dialogare con persone che non tendano a dialogare in maniera significativa con ciò che è venuto prima, con una certa profondità… però che alcuni artisti inevitabilmente incontrano meglio il palato delle persone di oggi, è indubbio. Ma questo vale anche per gli scrittori… ci sono degli scrittori che saranno sempre per palati più sofisticati e altri che comunicano a più persone, ma non ritengo che questo sia un tema negativo. Probabilmente Brecht intendeva in senso anche politico e anticapitalistico

Prima ti ho proposto una citazione di Bowie. Ora ne chiedo io una a te. Qualcosa che secondo te ha senso nella dimensione dell’arte…
La frase “Nail me to my car and I’ll tell you who you are”, in Joe the Lion (dall’album Heroes, 1977 ndr). Lì Bowie racconta bene il senso dell’arte e della performance in una frase perfetta. Parla del rispecchiamento dell’arte, che poi è il classico rispecchiamento baudelaireiano per cui l’arte è lo specchio di qualcosa di indicibile. Però io credo anche nel contenuto di verità dell’arte. In quel verso Bowie si riferisce alla performance Transfixed del 1976, di Chris Burden. È un’opera incredibile anche per la sua autoconsapevolezza legata alla storia dell’arte, perché rimanda a uno dei soggetti più rappresentati nella storia dell’arte, quello della crocefissione. Come sempre Chris Burden, ma come sempre tutti i veri artisti e scrittori, sono dei grandi lettori. Come diceva Arbasino, il primo libro di poesia che più o meno tutti lo fanno, ma poi devi essere anche un grande critico della poesia. C’è una bellissima frase che dice che ogni poeta parla ogni volta a un lettore per volta. Credo che sia molto vero.

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