
Da Guido Costa Projects le fotografie di Attilio Solzi ritraggono sgabelli e corpi seminudi su palchi vuoti, svuotando dal loro interno i canoni classici della rappresentazione alla ricerca di un modo più libero di fare e pensare l’arte
In occasione di Exposed Torino Foto festival la galleria Guido Costa Projects propone una mostra fotografica di Attilio Solzi (Soresina, 1962). La mostra s’intitola La Bohème. Il riferimento non è però all’opera di Puccini, quanto all’atmosfera che la parola francese, e con essa il mondo bohèmien, ancora oggi evoca. Le fotografie sono, infatti, scattate tutte nell’ambiente di un teatro dismesso, mentre i protagonisti sono artisti amici dell’autore, che si sono prestati come modelli per il progetto.
La mostra è composta da due serie di immagini, alcuni collages e un video. La prima serie di immagini mostra un gruppo di comuni sgabelli di plastica, posti in modo studiato l’uno accanto all’altro su un palco teatrale vuoto. Le immagini sono scattate in diversi momenti della giornata, seguendo però le variazioni della luce naturale che filtra dalle finestre del teatro. Il soggetto è, dunque, sempre lo stesso, ma al mutare della luce in cui viene ripreso cambiano le ombre, e con esse il modo in cui le forme appaiono e ne sono come scolpite.

Effetto antimonumentale
La seconda serie mostra gli stessi sgabelli, ma ora le immagini sono popolate da corpi seminudi, ritratti in piedi o seduti, in pose diverse, ma sempre su quegli stessi sgabelli, come a fare il verso ironicamente alle sculture antiche, dove le statue appaiono sempre sorrette da un basamento. L’ironia degli scatti, sempre crudi, netti e definiti nella loro semplicità (e questo vale anche per la prima serie di immagini, dove compaiono solo gli sgabelli, senza alcuna figura), è bilanciata da un’attenzione precisa, quasi scultorea alle luci e alle ombre e al loro alternarsi e rapportarsi le une con le altre. Luci e ombre, nette, non disegnano i corpi, ma piuttosto li scolpiscono secondo una scala di grigi che segue le leggi della naturalezza e della spontaneità.
I corpi di questa seconda serie di scatti sono sì nudi o poco vestiti, ma anche privi di qualsiasi intensità erotica. Né tantomeno sono volgari: somigliano piuttosto a sculture, appunto, statue dalle pose anche dinamiche. Ma le fotografie restituiscono quei corpi, o gruppi di corpi, attraverso sguardi semplici e diretti, al punto da apparire spietati, con effetto antimonumentale ed elegante al tempo stesso. Il fatto che i soggetti appartengano al mondo dell’arte, e siano a loro volta personalità creative non facilmente inquadrabili, filtra dalle immagini, donando una sorta di gusto particolare all’insieme.

Farsi gioco
La bohème indica infatti, tradizionalmente, quel mondo sì di artisti, ma non ancora noti o ascesi ai palcoscenici internazionali, che vivono ai margini, forse di espedienti, rifiutando stereotipi e cliché. Il tema non è riferito personalmente ai soggetti ritratti, ovviamente, ma piuttosto all’atmosfera che risulta dall’opera nella sua complessità. Si intuisce, così, una sorta di presa di posizione, la scelta a favore di un’arte capace di farsi gioco (nei due sensi del termine), libera da condizionamenti interni ed esterni, che riesce ancora a presentarsi letteralmente nella sua nudità, ovvero sinceramente, scevra da restrizioni o vincoli esterni.
In questo modo, come recita il testo che accompagna la mostra, Solzi attua una rilettura dei canoni classici di rappresentazione. Ma rileggendoli, li svuota dal loro interno e li rappresenta nella loro crudità e spietatezza, senza filtri, in senso reale e figurato. Se le fotografie disegnano uno spazio scenico, teatrale, i riferimenti sono anche agli happening e alla danza contemporanea, con tutto il background storico artistico e culturale che ne consegue.
Eppure, quello di Solzi è un racconto che volontariamente non dice tutto, sa tacere, ricorre a pochi elementi per disegnare una situazione che, invece, si rivela ben più articolata, frutto di scelte precise circa il modo di posizionarsi. Per gli artisti soggetto delle immagini letteralmente, sugli sgabelli, e per l’autore in senso figurato, ma non meno vero, all’interno del panorama sempre più artificiale dell’artworld.

Mood ostensivo
In mostra c’è anche un video, che ripete le stesse scelte e le ripropone in forma dinamica, con in sottofondo una musica dai toni underground. Infine, l’esposizione si completa con una serie di collages dove ai corpi, anche di volta in volta spezzati e ritagliati nelle loro parti, in modo funzionale, si mescolano parole e scritte che alludono al pensiero dell’autore.
Tutto appare in una forma limpida, ancora una volta cruda e netta. Si crea un ambiente, un luogo, anche mentale, dove sembra che non resti alcuno spazio segreto, niente di nascosto ancora da rivelare. Eppure, proprio in questo mood ostensivo, in questo gioco di nudità e spoliazione, si ricostruisce forse un segreto diverso, più profondo, percepibile solo a un più attento livello di lettura. Nello svuotamento di spazi e decori avviene la riconquista di un significato diverso, in certo senso di secondo grado e quindi forse ancora più intenso. Nella crudità e nella brutalità, quasi, del vuoto e del nudo privo di dettagli e orpelli, nasce un nuovo spazio per il dialogo, il gioco, l’improvvisazione, forse persino per l’immaginazione.
Quella di Solzi appare così una scelta quasi filosofica, oltre e più ancora che formale. Una scelta antibarocca, in qualche senso, un ritorno all’immagine pura, senza fronzoli, capace di parlare direttamente, senza soverchi giri di parole o di forme. A volte anche tacendo.













