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CHROMOTHERAPIA: la fotografia a colori che rende felici

Chromoterapia ph. © Daniele Molajoli
Chromoterapia ph. © Daniele Molajoli
Come la fotografia ha faticato a imporsi come disciplina artistica, altrettanto ha dovuto sgomitare quella a colori. I puristi hanno sempre arricciato il naso di fronte a quelle immagini che abbandonavano il più intimo, raccolto e essenziale bianco e nero, per abbracciare il più sfacciato colore.

Sebbene il colore abbia fatto la sua comparsa già nella seconda metà dell’Ottocento -è datata al 1861 la prima fotografia a colori duraturi realizzata da James Clerk Maxwell; mentre risale al 1868 quella scattata direttamente a colori da Louis Ducos du Hauron-, solo un secolo dopo riesce ad ottenere i meritati riconoscimenti. E Joel Meyerowitz è il fotografo statunitense universalmente riconosciuto per essere stato tra i primi a utilizzare la fotografia a colori agli inizi degli anni Sessanta. Sono, invece, Franco Fontana, Luigi Ghirri e Gabriele Basilico, i fotografi che hanno definitivamente svincolato quella italiana dal sacrale bianco e nero. Ed è proprio sulla libertà espressiva del colore che CHROMOTHERAPIA ha puntato tutta la sua portata. Allestita fino al 9 giugno nelle sale di Villa Medici, e curata da Maurizio Cattelan e Sam Stourdzé (attuale direttore dell’Accademia di Francia a Roma-Villa Medici e già direttore de Les Rencontres d’Arles), le sette sezioni in cui la mostra si articola, raggruppa poco meno di una ventina di autori, attraverso i quali i curatori hanno voluto raccontare una storia diversa della fotografia del XX secolo. Quella in cui il colore, denso e incisivo, e la totale possibilità di manifestare la personale visione, sono le dominanti di ogni singolo scatto. Mettendo, addirittura, in discussione il sottile confine che trascende nel kitsch. Sfida che lo stesso Cattelan, da ormai quindici anni, porta avanti, insieme a Pierpaolo Ferrari, nell’irriverente Toiletpaper. Magazine attraversata da atmosfere “surreali, impertinenti, mai rassicuranti”, che innegabilmente ha ispirato l’intera esposizione. Che si presenta con un allestimento vibrante, curato e oculato, attraverso il quale si amplificano le immagini e si espande lo spazio.

Chromoterapia ph. © Daniele Molajoli

Con immagini che includono anche quelle della moda e della pubblicità (alcune fotografie, come quelle di Miles Aldridge, sono state scattate per Vogue Italia, rivista che nel tempo ha dimostrato come qualsiasi argomento possa essere trattato anche attraverso gli scatti di moda), gli artisti non hanno avuto pudore nell’attingere a diversi linguaggi, compresi il Surrealismo (vedi Sandy Skoglund o l’evocativa aragosta di Madame Yvonde) e la Pop Art, superando, definitivamente, il taglio documentaristico. Seppur esagerata, a tratti umoristica, sicuramente ironica, la fotografia a colori è quella, fatta eccezione ovviamente di precisi filoni, che più si avvicina al reale cromatismo della vita e della realtà che ci circonda. Chi, meglio di Martin Parr, ha immortalato la vita qualunque? Dalla torta di compleanno al piatto ricolmo di cibo, ci butta dentro a quell’opulenza alimentare che Miyazaki ha meravigliosamente descritto ne La città incantata. E, nonostante “lo scherzo” sottinteso nel titolo, in quanto, scientificamente, non è stata definitivamente provata l’efficacia della cromoterapia per il trattamento di malattie, senza dubbio si esce dalla mostra con uno stato d’animo allegro e leggero. Perché l’abbondanza dei colori e, in molti casi, le dimensioni di diverse immagini, favoriscono un certo benessere, sicuramente mentale, “contro il logorio della vita moderna”.

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