
Ad una mostra in galleria, in un museo o semplicemente passeggiando per la strada, le immagini ci interrogano, ci sfidano e, a volte, ci invitano ad associazioni fino ad allora impensate. È quello che capita a Obnubi, spettatore dilettante a spasso tra le immagini, che ci accompagnerà nei prossimi mesi in una nuova rubrica dallo sguardo “trasversale”
Felice Ficherelli detto il Riposo – il Riposo, ma che bel nome – è un pittore del primo Seicento, uno dei cosiddetti artisti minori che affollano le sale dei musei e ai quali non si presta mai la dovuta attenzione. Sempre attirati come siamo dai nomi conosciuti, dai Capolavori (pardon, highlights) attraversiamo quasi come sonnambuli le sale in cui sono stipati i minori, convinti che le cose belle si trovino nei quadri riprodotti sulle cartoline, ma non sempre è vero.
Recentemente ho visitato Ca’ Rezzonico, il Museo del Settecento veneziano – un tripudio, uno splendore – l’ultimo piano ospita la Pinacoteca Egidio Martini, una bella e ricca quadreria donata dal collezionista alla città di Venezia. In queste sale, allestite con misura e grande gusto, ho incontrato Felice Ficherelli detto il Riposo. Chissà quante opere del Riposo ho visto nei musei che ho visitato senza essermene reso conto, questa volta però il suo quadro esposto mi ha veramente colpito. È un pezzo non di grandi dimensioni dipinto con precisione e grazia, rappresenta un episodio di storia romana, la didascalia scrive Tarquinio e Lucrezia anche se sarebbe più corretto: Lo stupro di Lucrezia.

La storia che raffigura racconta proprio di una violenza e lo fa senza celarne il contenuto, in primo piano c’è la bellissima Lucrezia nuda, la sua pelle è luminosa e fragile, è distesa su di un letto, ha il viso arrossato rivolto verso di noi, ci guarda silenziosa, dal suo sguardo emana una sorta di tristezza, sconfitta, rassegnazione e dolore, il poeta direbbe: un non so che di tragico e dolente. Lucrezia ha un braccio alzato, sembra chiedere aiuto, con l’altro cerca di respingere quella bestia di Tarquinio ma lui, Tarquinio, è già sopra di lei, con una mano la spinge con forza verso il basso, con l’altra si sostiene e stringe un coltello, ha la bocca semi aperta, sembra ansimare, biascicare qualche parola, qualche minaccia. La mano con il coltello è proprio in primo piano, le lenzuola bianche sono corrugate dalla forza, dalla violenza con cui Tarquinio opprime l’inerme Lucrezia. Un drappo rosso fa da quinta e uno sfondo nero chiude la scena come un abisso.

Quando il mio sguardo si è posato su questo quadro è stato attirato, ovviamente, da Lucrezia, dal suo corpo morbido e languido dipinto con maestria in tutti i toni e le sfumature del rosa; poi si è posato sul terribile coltello; quindi sull’intreccio di braccia e sulle forze contrastanti – respingere e opprimere – che mettono in movimento la composizione e infine è rimasto incagliato sullo sguardo di Lucrezia, lo sguardo della vittima, di chi soccombe alla violenza, lo sguardo di chi sa che tutto è perduto. Il turbamento per il contenuto del quadro così esplicitamente violento, e di una violenza ripugnante, si è intrecciato al piacere squisitamente estetico ricavato dall’ammirare un lavoro così pregevole. Questo intreccio ha generato una contraddizione e quindi un conflitto.
Di fronte a questo conflitto posso comportarmi in due modi. Primo: chiudere gli occhi, rifiutarlo, cercare di negarlo e passare oltre, è quello che fa la cosiddetta “cancel culture”, è un atteggiamento piuttosto ipocrita e codardo. La rimozione, tuttavia, non scioglie la contraddizione. Secondo: assumere i termini della contraddizione – e nominarli: violenza, abuso, stupro, dolore, morte e, insieme, bellezza – quindi accettare il conflitto come irrisolvibile, subirne il peso e forse anche la colpa (potrei imparare qualcosa, magari anche a non assomigliare mai “in qualche modo” a Tarquinio), vale per il bel quadro dipinto dal Riposo e vale per quasi tutte le cose belle che i musei e le biblioteche conservano.
Detto questo, confesso però che l’immaginazione dopo un po’ mi ha spinto oltre a queste considerazioni per me così complicate e anche amare e ho cominciato a fantasticare… se non fosse per il coltello, questo quadro potrebbe essere una scena diversa, una specie di rinascimentale “combattimento d’amore”; Tarquinio potrebbe sussurrare parole dolci, di desiderio; le braccia potrebbero intrecciarsi per la forza della passione; il nero dello sfondo non è un abisso ma intimità e dallo sguardo di Lucrezia potrebbe emanare “un non so che di languido e soave”. Già, se non fosse per il coltello.














