
Liberi dentro, liberi fuori era il sottotitolo del festival difffuso di arte contemporanea nell’ex carcere di Sant’Agostino
Varcare il cancello e poi il portone dell’antico carcere di sant’Agostino, a sua volta ricavato da un preesistente monastero: farlo da persone libere, consapevoli che il nostro cammino sarà circoscritto, che al termine della visita, o perfino prima, quando lo vorremo, sarà un nostro atto di volontà individuale a permetterci di ripercorre a ritroso i nostri stessi passi. A tutto questo ho pensato sabato 7 giugno in occasione dell’inaugurazione di Connexxion, il grande festival diffuso curato con ammirevole impegno e intelligenza da Livia Savorelli a Savona convlusosi il 14 giugno, nell’ex struttura correzionale della città ligure.
Ecco, alla ricerca di sinonimi, come si fa quando si scrive, ho adottato il termine correzionale, aprendo in me un dibattito interiore che si snoda attorno al nome di Michel Foucault, alla sua rivoluzionaria analisi della segregazione nella storia dell’umanità. Liberi dentro, liberi fuori è del resto il titolo della terza edizione di Connexxion. Le celle, i corridoi il cortile interno di un luogo che della libertà è stato a lungo negazione si aprono, abitati da artisti, installazioni, fantasmi che ci sussurrano sommessi, ma che vorrebbero piuttosto gridare una pena irrisolta.

Così, nella cella occupata da Silvia Vendramel va in scena Sullapareti nulla, un’installazione che è in primo luogo una negazione: lo spazio, al contrario di quanto suggerisca il titolo, è abitato da una congerie di oggetti disparati, ma nel buio del loculo sarà la torcia dei nostri cellulari a generare figure illusorie, guizzi disegnati da ombre provvisorie, anime che esistono in quella specifica forma solo in quell’attimo per poi mutare o semplicemente spegnersi per sempre.
Analogamente, in Ali di Gino D’Ugo, l’impalpabile immateriale di una pagina scritta o letta in carcere, in un manicomio, in uno qualsiasi dei luoghi di segregazione assume le forme di falene di carta lieve e aderisce alla volta della cella, spintavi da un soffio d’alito o dalle leggi della fisica: sta forse a noi decidere se qui prevalga un’interpretazione consolatoria, data dalla cappa di colore e di pensiero che riveste la stanza, o se i limiti imposti dalla muratura suggeriscano invece l’inanità del gesto di ribellione intellettuale.

Alcuni artisti riflettono sul paradosso rappresentato dalla condizione di reclusione condivisa dai detenuti e da chi è preposto a custodirli o correggerli: Minosse, Cerbero, Plutone soffrono nell’Inferno dantesco la coabitazione forzata con le anime dannate e sono parte della stessa infinita disperazione. Il mio secondino è un numero, ci suggerisce Angelo Demitri Morandini, le cui opere spesso si muovono elegantemente nell’incavo tra la creazione artistica e il pensiero filosofico e matematico. Sequenze numeriche – Celle algoritmiche – si fanno metafora dell’impossibilità di comprendere i motivi che presiedono agli eventi umani.
It’s not always easy to be a cop, gli fa eco con un’installazione video Federica Mariani, che tuttavia compie un ulteriore passo nell’indagine sul significato della detenzione: la perdita della disponibilità esclusiva del nostro corpo, che da quando varchiamo la soglia del carcere è almeno in parte consegnato al controllo e alla manipolazione altrui, come nel progetto Body search by-the-book, nel quale lame di coltello sono montate su calchi di cera di paraffina dei genitali femminili, al cui interno alcune detenute erano – o ancor’oggi sono – solite cercare di nasconderle.

Crediti: foto Michele Alberto Sereni.
Il corpo violato può anche essere quello degli animali, e ad esso si rivolge con un gesto di potente e non ossimorica pietà Tiziana Pers con l’installazione The Age of Remedy, autentica dichiarazione di intenti: non mangerai (più) di questa carne. In Sala de espera Narda Zapata, artista boliviana attiva da anni in Europa, colloca sul pavimento della cella dodici Cleintes, figure votive beneauguranti della tradizione andina, montate tuttavia su frammenti grezzi di cancellata di ferro: al sincretismo religioso e culturale si sovrappone un di meticciato logico, che unisce ma contrappone speranza e costrizione. Una traccia audio rimanda decine di preghiere e invocazioni che esprimono in diverse lingue il lancinante desiderio di libertà.
Si è soli nella moltitudine rumorosa di un carcere, riflettevo percorrendo quasi più con il tatto che con lo sguardo i corridoi dei Sant’Agostino, e mi soccorrevano in questo pensiero Alone, l’installazione luminosa di Maya Zignone, e quella di mClp studio e Daniele Nitti Sotres, dal tritolo ZERO, costruita proprio sui rumori, sulla loro assenza e presenza.

Crediti: foto Michele Alberto Sereni.
Il perdono ha l’odore dei fiori calpestati, ci ricorda dunque con il suo lavoro Matteo Musetti: ma non ci è dato sapere chi debba perdonare, se colui che si trova dentro, recluso, o chi dall’esterno ha osato giudicare. Il giorno prima dell’inaugurazione Monalisa Tina ha girato la città in cerca di vergogne, confessioni libere, intime e profonde, affidatele da persone che venivano da esperienze e storie diverse tra loro.
Riproposte in occasione dell’apertura della mostra, il 7 giugno, e accompagnate da una sorta di lenta e delicata monoporcessione dell’artista, quelle voci hanno improvvisamente abitato il pozzo del cortile interno. Come il soffio vitale dell’Ulisse prigioniero della fiamma, cui vento affatica, sono giunte giù da noi le vicende più crudeli o meschine, che tuttavia, nel dipanarsi sonoro, perdevano via via ogni marchio di vergogna, ricordandoci l’unica comune ventura: essere noi umani, e null’altro.













